mercoledì 12 dicembre 2007

HITMAN - L'ASSASSINO


Hitman

Francia,USA 2007

REGIA

Xavier Gens

INTERPRETI

Timothy Olyphant, Dougray Scott, Olga Kurylenko, Robert Knepper, Ulrich Thomsen, Henry Ian Cusick, Michael Offei.

SCENEGGIATURA

Skip Woods

Leggenda vuole che il regista Xavier Gens, alla sua seconda regia, si sia chiuso in casa a vedere ininterrottamente soltanto action di Hong Kong, dai classici di John Woo a quelli più recenti di Johnnie To. Effettivamente il lavoro lo si nota nelle sparatorie molto curate e orchestrate in maniera ineccepibile. Ma è anche il limite di un film che vive soprattutto d’azione senza essere glorificato da una trama decente e da personaggi che non superano la macchietta. Difficile d’altronde trarre di più da un gioco che ha la sua forza nel poter compiere missioni senza essere notato, dove l’azione adrenalinica di un “Doom” lascia lo spazio ad una meditazione anticipatrice che ricorda una regola degli scacchi: “Per vincere non pensare alla prima, ma alla terza mossa”. In questo lode a Gens che trasporta dal mondo videoludico a quello cinematografico una pellicola impossibile da girare, cercandola di nobilitare con una tecnica a tratti impressionante. Il reparto attori è perfetto: Timothy Olyphant incarna perfettamente l’agente 47 del videogioco omonimo, un killer misogino e silenzioso, così come Olga Kurylenko, attrice e modella ucraina, è bella quasi da far male. A incendiare il cuore di molti fan del gioco la ricostruzione fedele di alcuni scenari e l’idea fulminante e geniale di mettere in scena il protagonista in una stanza dove due ragazzini giocano al videogame di Hitman. Peccato che il budget sembri poverissimo con più interni che esterni, con città della Repubblica Ceca camuffate da Mosca o Londra. “Hitman” è certo un film da vedere, molto divertente, ma rimane l’amaro in bocca che sarebbe potuto essere qualcosa di più con un minimo sforzo nello scrivere una sceneggiatura decente. Peccato poi che il film sia stato stuprato in fase di montaggio per renderlo più commerciale ampliando la comunque esigua storia d’amore tra il killer e la bella prostituta russa. Produce l’ex divo d’azione Vin Diesel con la complicità del marpione Luc Besson. Cammeo straordinario del T-Bag di “Prison break”.

di Andrea Lanza

venerdì 7 dicembre 2007

1408


1408

USA 2007

REGIA

Mikael Hafström

INTERPRETI

John Cusack, Samuel L. Jackson, Mary McCormack, Jasmine Jessica Anthony

SCENEGGIATURA

Matt Greenberg, Scott Alexander, Larry Karaszewski

Belli i tempi in cui Stephen King era sinonimo di garanzia per libri o film. Ora i suoi lettori (e spettatori) sono cresciuti e di merda ne hanno inghiottita a iosa, hanno capito che non per forza il binomio libro buono da’ un film buono. Certo non tutti i registi sono Carpenter o Romero e col senno di poi l’It televisivo era per lo meno vedibile, ma ultimamente le opere tratte da King oltre ad essersi notevolmente assottigliate nel tempo sono diventati compitini presuntuosi che ruotano intorno a quei due o tre temi cari allo scrittore del Maine. Questo 1408 non fa difetto alla sequela di filmetti dimenticabili, anzi ne diviene l’alfiere più autorevole con una pochezza di idee preoccupante e attori di un certo calibro come Cusack o Lee Jackson sciupati in marchette alimentari. La storia è sempre quella, da Shining in avanti, con una camera diabolica che spinge alla follia chi ha il coraggio di affittarla. Interessante certo lo sforzo in fase di scrittura di rendere ancora più umano il personaggio del protagonista, rispetto al raccontino originale di King, affibbiandogli un passato luttuoso con figlia uccisa da malattia. Poteva essere una pellicola quindi anche gradevole se il regista svedese Mikael Hafström e i suoi tre sceneggiatori avessero avuto per lo meno un’idea di cosa sia un film del terrore non banale e tutto il plot invece gira su stesso regalandoci almeno due finali senza mai sapere dove parare. 1408 poteva essere un episodio ottimo di “Masters of horror” se fosse durato 50 minuti, ma i suoi 104 minuti pesano come un macigno. Non aiuta poi certo che i produttori, come spesso in tanto cinema recente d’autore o no (Captivity, Hitman), abbiano defenestrato nel final cut il regista in favore di leggi commerciali non molto condivisibili sul piano qualitativo. Quindi nel volere di Mikael Hafström (autore di un interessante “Evil” e di un brutto “Derailed”) il finale era molto più plumbeo e cattivo. Oddio, non che la cosa avrebbe alzato più di tanto il tiro, ma per lo meno si sarebbe potuto giudicare l’opera nel suo complesso. Consigliato solo a chi è stato dal 1940 in Himalaya senza possibilità di andare al cinema o vedere la tv.

di Andrea Lanza

martedì 4 dicembre 2007

LA PROMESSA DELL'ASSASSINO


Eastern Promises

USA 2007

REGIA

David Cronenberg

INTERPRETI

Naomi Watts, Viggo Mortensen, Vincent Cassel, Armin Mueller-Stahl,

SCENEGGIATURA

Steven Knight

Questa volta un noir puro per Cronenberg, o ancora , un classico gangster movie che, secondo la sceneggiatura di Steven Knight, non sarebbe dispiaciuto a Raoul Walsh. Già, perchè stavolta siamo su territori già ampiamente calcati nella storia del cinema, quasi banali nella loro classicità: le regole della criminalità organizzata come l'immaginario comune le ha assimilate. I dettami del Mafia Movie vengono rispettati pedissequamente e probabilmente in mano ad altri il risultato non sarebbe stato il medesimo. Cronenberg invece trasforma in delirio anatomico tutto ciò che tocca, passa attraverso gli scontri emotivi dei personaggi per suggerire le implicazioni dei loro corpi, più che mai organici, più che mai involucri. L'involucro che contiene la vera protagonista del film, Christine, nata da una madre 14enne morta per dissanguamento,figlia di una violenza carnale e che nel suo dna ha la rivoluzione delle gerarchie criminali costituite. L'involucro di tatuaggi e cicatrici che contiene Nicholai, un gigantesco Viggo Mortensen, un enigma vivente, l'aspirante Re che nasconde dolorosamente il vero se stesso con l'immagine incredibilmente suggestiva, cool, che può avere un hitman della mafia russa. Per sua stessa ammissione privo di madre e padre, morto a 15 anni e da allora abitante della "zona" dove le emozioni non solcano lo sguardo. L'involucro scomodo in cui è contenuto Kirill, Vincent Cassell, il migliore in assoluto, il principe incapace di potestà, insicuro di una identità reietta, sia essa familiare (il sangue) sia essa sessuale (la presunta omosessualità), personaggio complesso ed indispensabile. L'involucro che contiene il mite Semyon, Armin Mueller-Stahl, il Re apparentemente giusto e buono che nasconde dentro la Bestia, capace delle azioni più basse, una figura quasi horror nella sua inespressa psicopatia. Questi sono i corpi senzienti in cui sono sepolti gli orribili segreti. C'è tutta una poetica attraverso parole e sentenze che dipingono un universo profondamente cronenberghiano("seppellisci i segreti coi propri corpi"-"corpo,singolare", "siamo nati già sepolti,io e mio padre","dagli schiavi nascono schiavi","per ragioni poetiche,suggerirei il suo sangue"), frasi intense e "coreografiche" ma fondamentali per Cronenberg che ne trascrive sopra naturalmente i propri temi. Come nella più grande bladefight di tutti i tempi, in cui il guerriero più valoroso, nudo e feroce, conquista il diritto al trono epicamente. Come nel finale solo apparentemente consolatorio, dove nonostante si raggiunga il proposito si ammette, mestamente nello sguardo del nuovo Re, che l'unica soluzione è l'esilio, la negazione di sé, l'abbandono del corpo verso altro.

di Gianluigi Perrone

lunedì 3 dicembre 2007

THE KINGDOM


The Kingdom

USA 2007

REGIA

Peter Berg

INTERPRETI

Jamie Foxx, Chris Cooper, Jennifer Garner, Jason Bateman e Jeremy Piven

SCENEGGIATURA

Matthew Michael Carnahan

Peter Berg è un regista strano. Le opere precedenti a The Kingdom avevano sempre mostrato di più di quanto uno si aspettasse, con un fiuto eccezionale per le storie bizzarre. In the Kingdom succede il contrario. La trama del film è di quelle importanti: Arabia Saudita e U.S.A. Un didascalico riassunto all’inizio del film analizza 100 anni di collaborazioni tra i due paesi e si conclude con un perentorio “L’Arabia Saudita è il primo produttore di petrolio al mondo, gli U.S.A. sono il primi consumatori di petrolio al mondo” . Perfetto! Ma dopo come associare queste informazione al film. La sensazione è che alla fine non interessasse granchè di continuare questo discorso: in tutto il film c’è solo un timido accenno alle differenza di cultura (ma che palle!!) è basta. Il resto si divide in un timido film investigativo dove le soluzione sono le più banali possibili e una lunghissima e indecifrabile sequenza d’azione, molto più simile ad un sparatutto che a una scena di guerra, che fa finire il film in un modesto quadretto: siamo noi occidentali i salvatori e loro le pecore o siamo noi i cattivi e loro un po’ meno cattivi. Difficile costruire una morale dopo aver abbattuto un centinaio di Arabi, pensate se poi il film aveva lo scopo principale di essere di denuncia. Ma dove sta la denuncia: nelle frasi nascoste sussurrate all’orecchio, brutte parole che uscirebbero solo da un benpensante in un salottino privato prima di entrare in un congresso e far accettare alla gente che la guerra è giusta. Sinceramente non si capisce il film dove voglia andare a parare. Vuole essere di denuncia, ma un pochino action. Un po’ pacifista un po’ azionista. Difficile interpretare il senso dell’operazione. Comunque almeno non annoia ed è già qualcosa. Cast innocuo.

di Daniele Pellegrini

ACROSS THE UNIVERSE


Across the Universe

USA 2007

REGIA

Julie Taymor

INTERPRETI

Evan Rachel Wood, Jim Sturgess, Joe Anderson, Dana Fuchs, Martin Luther

SCENEGGIATURA

Dick Clement, Ian La Frenais

All You Need Is Love. Chissà perché tutte le generazione passano come le loro mode, le rivoluzioni, la loro musica. L’unica che stenta ad appannarsi è la cosiddetta generazione dei figli dei fiori. I loro sogni sono ancora i nostri. Il sogno di Julie Taymor era quello di raccontare questa generazione con la musica degli immortali Beatles. Un musical per raccontare la storia d’amore tra Lucy e Jude (ma va’) nei faticosi 1960s. E per la prima volta si può dire che un film Taymor funziona in toto o quasi. E’ pensare che il peso era colossale. Non si può cadere nel banale quando si parla di Sixteen o Beatles: i detrattori sono troppi e le malelingue ti aspettano sempre come avvoltoi. Con furbizia e convinzione la Taymor lascia che sia la musica dei Beatles a raccontare la storia. Ogni pezzo è stato scelto con intelligenza e incanalato nel giusto stile registico diverso per ogni canzone e stato d’animo (la scena Strawberry Fields Forever è uno spettacolo per gli occhi). Il raggiungimento artistico di Across the Universe è incredibile: il capolavoro non è poi così lontano. Ma c’è un difetto, grosso come il monte Everest: i Beatles. Ma siamo sicuri che siano veramente i Beatles i veri cantori di quella generazione. Di sicuro erano e sono i più famosi, ma su questo aspetto si poteva fare meglio. Forse: i Jefferson Airplane (conigli bianchi a posto di Fragole rosse), i Doors, i The Moody Blues o addirittura i fottutissimi Guess Who (il film ne avrebbe guadagnato in tasso alcolico e donne). Ma meglio di tutti sarebbe stato un Medley di tutti i miglior pezzi anni ’60. Perché capolavoro o no il film può piacere solo a chi è appassionato di Beatles (e li conosce profondamente). In ogni caso, escluso il fatto prettamente conoscitivo, Across the Universe è un film che si fa adorare soprattutto per l’incredibile impatto visivo e per quella spensieratezza narrativa che in qualche modo riesce ad emozionare. Gli attori tutti bravi nessuno escluso, cantano e ballano con una leggerezza sublime. Cammei per Bono (un grande Boh) e Joe Cocker che invece di rifare Little help from my friends ci delizia con una rivisitazione di Come Together in uno dei migliori momenti del film.

di Daniele Pellegrini

giovedì 22 novembre 2007

THE MATADOR


The Matador

USA, Germania, Irlanda 2005

REGIA

Richard Shepard

INTERPRETI

Pierce Brosnan, Greg Kinnear, Hope Davis, Philip Baker Hall, Adam Scott, Dylan Baker.

SCENEGGIATURA

Richard Shepard

Cosa implica nella carriera di un attore interpretare una incona come James Bond? Se lo si chiedesse a Pierce Brosnam probabilmente parlerebbe di pro e contro. E' chiaro che si entra instantaneamente nella storia del cinema ma contemporaneamente la propria faccia diventa indissolubilmente legata a quella dello 007 più sexy che sia a servizio di sua maestà. Un prezzo da pagare per una popolarità del genere. Il problema arriva dopo. Come essere credibili per altri ruoli? Daniel Craig lo sta facendo alternando altri lavori completamente diversi, finchè gli permettono di farlo, Brosnam tenta il tutto per tutto. Ed ecco l'ironico The Matador, una commedia molto poco corretta che vede Brosnam in un ruolo non molto dissimile da quello di Bond ma diametralmente opposto. Infatti la vita di Julian Noble è parimenti straordinaria a quella dell'agente segreto ma caratterialmente ne è agli antipodi. Infatti Noble, nonostante il nome, è un rozzo,alcolizzato,tabagista, sboccaso, sessuomane killer professionista. Naturalmente l'ironia della scelta del ruolo è evidente e l'attore pare incredibilmente divertito nella parte del laido assassino. Richard Shepard ci racconta di un momento di evidente depressione del personaggio che, privo di qualsiasi stimolo di vita, si rende conto di aver fatto terra bruciata intorno a sé. Solo, il giorno del suo compleanno, tenta un approccio con un perfetto sconosciuto,Danny Wright (Greg Kinnear),un integerrimo e mite uomo d'affari in difficoltà, che come Noble è a Città del Messico per lavoro. Noble si attacca morbosamente al suo nuovo amico e parte il classico buddy movie, che però si avvale di una sceneggiatura e dei dialoghi talmente accattivanti da essere difficilmente inefficaci. Richard Shepard gira con una regia pomposa e presente, su scenografie coloratissime e appariscenti, trasformando il film in un divertente fumetto che perde di ritmo nella seconda parte ma è assolutamente delizioso per la maggio parte della sua durata.

di Gianluigi Perrone

mercoledì 21 novembre 2007

LA LEGGENDA DI BEOWULF


Beowulf

USA 2007

REGIA

Robert Zemeckis

INTERPRETI

Ray Winstone, Brendan Gleeson, Angelina Jolie, Anthony Hopkins, Robin Wright Penn, Crispin Glover e Alison Lohman

SCENEGGIATURA

Neil Gaiman e Roger Avary

Accidenti a Zemeckis e alle sue idiozie. E dato che ci sono accidenti anche alla Motion capture, all’ IMAX 3D e a tutte le altre stronzate. Il senso è zero. Beowulf è un buffo cartoon plasticoso fatto con gli scarti di produzione di Shrek. Eppure Zemeckis era un grande innovatore, uno che vent’anni fa aveva fatto il grande salto verso la tecnologia di interazione tra personaggi veri e animati. Insomma non è l’ultimo arrivato che si ciba di tecnologia per evitare carenze tecniche. Quindi immagino che The Polar Express non bastasse come esempio e si doveva ripetere l’errore. La tecnologia si sarà evoluta dall’epoca? Purtroppo non è cambiato molto. Stiamo ancora qui a commentare gli stessi errori; scarsa impressionabilità, movenze irreali, distacco visivo tra i protagonisti e le controfigure e quant’altro. La logica e un pochino di moralità vieterebbero di chiamare a recitare uno come Anthony Hopkins e trasformarlo in un pupazzone: specialmente per uno che ha basato tutto il suo lavoro sulla presenza scenica. Quindi preso atto che la tecnica non funziona o perlomeno è ancora troppo primordiale per impressionare davvero, sorge una domanda; ma era necessario utilizzare questa tecnologia per raccontare Beowulf? Sicuramente non era necessario. Di sicuro un poema come Beowulf non necessitava di un trattamento del genere, al massimo poteva renderlo più accattivante (perché è bene ricordarlo: il poema di Beowulf è una palla mostruosa) alle nuove generazioni che magari in un contesto più classico avrebbero evitato di andare a vedere le gesta del Re caccia mostri per eccellenza. Lo scopo è chiaro; Beowulf deve essere un prodotto di intrattenimento e il difficile lavoro di rilettura viene messo nelle mani di un duo magnifico di sceneggiatori: Gaiman e Avary. Lo scopo del loro lavoro; riuscire a racchiudere in massimo due ore di film le lunghissime gesta dell’eroe, senza però dimenticare che deve essere un film per tutta la famiglia. Il problema è che non si può avere tutto dalla vita. Ci sarebbero volute 5 ore per raccontare bene la storia; il film non dura neanche 2 ore e il risultato è una penosa narrazione didascalica che infila momenti epici (naturalmente deve essere serio) e momenti più o meno umoristici (deve pur piacere a un pubblico che ha al massimo 10 anni). Insomma un bel pastrocchio. Per fare un esempio; nella scena madre dove Beowulf combatte nudo contro Grendel, per evitare di mostrare i genitali del guerriero la regia usa trucchetti come mettere un bottiglia davanti o un spada manco fossimo in un film di Zucker. Di bello c’è la realizzazione di Grendel fatta a computer (e lì sì che serve il computer) e un bellissima Angelina Jolie (anche lì serviva il computer, perché negli ultimi tempi pure la sua bellezza, oltre che la carriera, si sta disciogliendo). Insomma in definitiva, nulla di nuovo sotto il sole. Mi viene solo da piangere al pensiero che non c’è due senza tre. BRRRR

di Daniele Pellegrini

lunedì 19 novembre 2007

IL NASCONDIGLIO


Il Nascondiglio

Italia 2007

REGIA

Pupi Avati

INTERPRETI

Laura Morante, Burt Young, Giovanni Lombardo Radice,Venantino Venantini


SCENEGGIATURA

Pupi Avati



Pupi, il cuore è altrove.
Che l’horror sia tornato di gran moda e che sia quasi sempre sinonimo di incassi vertiginosi non è una novità; che altrettanto spesso questo successo di pubblico non sia legato ad una qualità che giustifichi tanto clamore massmediatico, neppure. Così, i tantissimi nostalgici del cinema del terrore che l’Italia sapeva regalare qualche decennio or sono, avevano accolto la notizia del ritorno di Pupi Avati nei territori che dominò prima con La casa dalle finestre che ridono poi con Zeder con giustificato entusiasmo, dimenticando, o forse fingendo di farlo, gli ultimi, neanche così tanti per la verità, passi falsi del regista romagnolo.
Per questo più volte sognato ‘revival orrorifico’ il nostro si trasferisce negli Usa, mettendo in scena una personale rivisitazione del filone ‘case infestate’, dotando il film di un prologo ambientato a metà del ‘900 che è forse la parte più riuscita dell’intera pellicola. Il ritorno ai giorni nostri, che è la conseguenza inevitabile di quello che fu nell’antefatto, non mantiene le promesse che sembrava aver fatto l’atmosfera gotica dei quindici minuti iniziali. Il film sembra con il passare del tempo prendere più la forma del legal-thriller, del cosiddetto ‘giallo di ricerca’ piuttosto che quella che tutti i fan del vecchio Avati auspicavano: le malsane atmosfere che caratterizzavano i precedenti horror del regista sono ridotte alle voci off che infestano la casa, la voglia di angosciare delle pellicole precedenti e che ben si può sintetizzare in quei beffardi sorrisi della casa titolare di quello che forse è il film simbolo del Pupi gotico sembra essere sparita in luogo di un ben più facile compitino. Una pellicola dalla scrittura lineare, sicuramente senza particolari scossoni che potrebbero far deragliare il film, ma anche senza la voglia di osare che era lecito aspettarci. Uno strano ibrido tra nostalgia per quello che si è fatto e paura di tornare ad esagerare, un continuo vorrei ma non posso (o non voglio) esplicitato anche dalla scelta del cast: perchè la presenza di Giovanni Lombardo Radice e di Venantino Venantini sono la prova evidente che la voglia di rimanere attaccato alle origini, al genere, non sia mancata nelle intenzioni, ma la presenza di Laura Morante sembra il paracadute di chi teme di aver puntato troppo in alto.
Rimane così un discreto thriller che sembra più strizzare l’occhio più alla nuova scuola spagnola che alla vecchia guardia italiana: un film asettico nella sua deprecabile perfezione, una macchina che funziona ma che, nonostante qualche momento mirabile (torna l’ossessione del regista per le vecchie maniache), non riesce a consacrarsi come il ritorno di Pupi Avati, quello totale, completo, con la mente ma soprattutto con il cuore.

di Michelangelo Pasini

giovedì 15 novembre 2007

MILANO - PALERMO: IL RITORNO


Milano Palermo - Il ritorno

Italia 2007

REGIA

Claudio Fragasso

INTERPRETI

Giancarlo Giannini, Raoul Bova, Ricky Memphis, Simone Corrente


SCENEGGIATURA

Rossella Drudi


E' importante chiarire che l'esistenza di una cinematografia sana si basa sul cinema popolare, il cinema di genere e l'entertaiment. Non sempre quello che vuole il pubblico è quello che funziona veramente,anzi raramente ma privare il cinema di un certo tipo di identità è quantomeno dannoso. Ecco perchè Milano Palermo Il Ritorno è un film essenziale per il cinema italiano, tanto quanto lo è stato Arrivederci Amore Ciao di Michele Soavi(che non a caso fa un cameo nel film). Tant'è. Fragasso fa ancora una volta un film internazionale, con un cast tutto italiano ma veramente notevole,massiccio e funzionale. Tralasciando i soliti noti (Loverso,Giannini,Bova)sono i coprimari a fare il lavoro migliore. Libero DeRienzo, il sempre romanissimo e tosto Ricky Memphis,SImone Corrente vestito da Wolverine e i giovanissimi attori del film. La storia non val manco la pena raccontarla, ed in effetti nonostante una scrittura funzionale e alcune scene azzeccate il plot è volutamente banale e a volte fine a sé stesso per avere un respiro quanto più commerciale possibile. Il risultato è una elegia del genere attraverso l'azione ma anche il western che Fragasso cita a piene mani, in maniera veramente sapiente ed inaspettata. Sparatorie complesse in stile hongkonghese, una regia piena ed intensa, tutto sommato senza esagerare il film intrattiene ed emoziona anche se non centra ogni momento nel complesso a causa di un plot che non tiene abbastanza. Aria fresca per il cinema italiano,comunque e sempre.

di Gianluigi Perrone

I GUARDIANI DEL GIORNO


Daywatch/Dnevnoy dozor

Russia 2006

REGIA

Timur Bekmambetov

INTERPRETI

Vladimir Menshov,Valery Zolotukhin,Rimma Markova,Galina Tyunina,Victor Verzhbitsky,Aleksei Chadov,Konstantin Khabensky


SCENEGGIATURA

Timur Bekmambetov e Sergei Lukyanenko

Tibur Bekmambetov torna ancora con la saga di Nightwatch di Lukyanenko, grandissimo successo in patria e chiave di svolta per l'industria cinematografica russa. Questo secondo capitolo pare essere ancora più denso di azione del precedente. Quello che colpiva del primo capitolo era la maniera assolutamente cafona ma efficace con cui Bekmambetov utilizzava tutti gli espedienti visivi più di impatto, scene d'azione oltre l'immaginabile, bullet time e ralenti a manetta e l'epitome dell'esagerazione. Nel secondo arriviamo ad affrontare i grattacieli e il mito dei guardiani della forze del bene e del male si evolve in direzione verticale. Per fortuna la produzione russa ha capito di non doversi fossilizzare sul modello originale. Daywatch infatto è scritto molto meglio del precedente, la storia è decisamente più complessa e densa di svolte narrative e colpi di scena. Lo stesso protagonista,Anton, si produce in performance complesse e grottesche, approfondendo notevolmente il personaggio. Per adesso il futuro del cinema russo è legato esclusivamente a Bekmambetov e dopotutto ai fuochi d'artificio, ma se dovesse far scuola abbiamo una scena notevole da cui attingere.

di Gianluigi Perrone

TIDELAND - IL MONDO CAPOVOLTO


Tideland

USA 2006

REGIA

Gregory Hoblit

INTERPRETI

Jeff Bridges, Jodelle Ferland, Janet McTeer, Brendan Fletcher


SCENEGGIATURA

Tony Grisoni e Terry Gilliam

L'interpretazione di Terry Gilliam del durissimo romanzo di Mitch Cullin è decisamente uno dei lavori più controversi degli ultimi anni. Da una parte lo stile di Gilliam è evidente, assolutamente riconducibile ai lavori precedenti del regista, Paura e Delirio a Las Vegas e La Leggenda del Re Pescatore soprattutto. Dall'altra è un film incredibilmente disperato e acre che quasi cozza con lo stile irreale del regista. Infatti se la storia della piccola Jeliza Rose, figlia di due tossici diretti in overdose,abbandonata nelle mani del popolo che vive ai margini nel mondo visto coi suoi occhi di novella Alice (Carroll è l'ispirazione principale del romanzo), è estremamente crudele e non può che riempire lo spettatore di un surreale,poetico disagio, non è escluso che sia proprio la regia di Gilliam a edulcorare minimamente un testo estremamente nero. Nonostante il film sia incredibilmente forte ed efficace, probabilmente grazie anche a ottimi interpreti, un Jeff Bridges hyperdude ed una Janet McTeer a la Carl McCoy ma soprattutto al "fenomeno" Jodelle Ferland, questo piccolo gioiello di schizofrenia, non riusciamo a immaginare quanto sarebbe stato duro il suo approccio in mano ad un Armony Corine o a Gregg Araki. Ma quello che sarebbe potuto essere non ha senso, visto che comunque l'interpretazione del testo di Gilliam è comunque delicatamente perversa e orbita intorno a necrofilia e pedofilia senza però addentrarvici troppo. Tideland potrà avere dei difetti(alcune lungaggini ad esempio) ma va visto con la parte giusta del cervello e con sufficiente apertura mentale da accettare la bellezza dell'abiezione e dell'orrore di vita , come era comunque Henry di McNaughton, ma trascendendo il genere o idealmente abbracciandoli tutti. A suo modo unico.

di Gianluigi Perrone

sabato 10 novembre 2007

IL CASO THOMAS CRAWFORD


Fracture

USA 2007

REGIA

Gregory Hoblit

INTERPRETI

Anthony Hopkins, Ryan Gosling, David Strathairne e Rosamund Pike


SCENEGGIATURA

Daniel Pyne e Glenn Gers

Un ingegnere aeronautico (Anthony Hopkins) uccide la moglie creando un delitto perfetto. La pratica dell’accusa viene affidata a Willy Beachum (Ryan Gosling), giovane e rampante avvocato che è un procinto di lasciare la procura distrettuale per entrare in uno studio privato. Però quello che doveva essere un processo lampo si trasforma in un gioco al gatto ed al topo.
Ennesima delusione di Gregory Hoblit, che dopo un paio di buoni film all’inizio è scivolato in un abisso di prove mediocri da cui sembra non volere uscire. Fracture è un innocuo esempio stilistico di duello tra due personaggi; Hopkins rifà Hannibal Lecter, mentre il bravo Gosling ritira fuori tutto (o quasi) il suo bagaglio di ragazzino duro. Un duello dialettico dove i due si fronteggiano a colpi di lunghissimi dialoghi che allungano a dismisura la pellicola. Insomma un thriller di poca cosa questo Fracture che cerca eloquentemente di fare solo due cose: incastrare quà e là qualche pezzo del puzzle e far giocherellare il più possibile i protagonisti. C’e pure un timido accenno critico ad un sistema legislativo, ma è troppo poco messo in risalto per essere il tema portante; un vero peccato perché ad un certo punto poteva prendere questa strada e il film ne avrebbe di sicuro guadagnato. Insomma un'altra grande occasione persa per questo Hoblit che infila per lo meno una buona dose di inquadrature azzeccate e ci da prova di un’ innata capacità di saper dirigere gli attori. Se solo lo script fosse stato meglio.

di Daniele Pellegrini

mercoledì 7 novembre 2007

THE BOURNE ULTIMATUM


The Bourne Ultimatum

USA 2007

REGIA

Paul Greengrass

INTERPRETI

Matt Damon, David Strathairn, Joan Allen, Albert Finney, Paddy Considine, Scott Glenn e Julia Stiles

SCENEGGIATURA

Tony Gilroy e Scott Z. Burns

Capitolo finale della trilogia sull’ agente segreto smemorato più famoso del cinema (se ampliamo il campo ci sarebbe XIII a cui forse Robert Ludlum avrebbe dovuto qualcosa). Caso strano in questo senso è il sottotitolo italiano di smithiana memoria: Il ritorno dello sciacallo. Chi non ricorda il dibattito sulle trilogie in Clerks 2 tra “Il ritorno dello Jedi” e “Il ritorno del Re” (che a dir la verità fanno pena tutte e due). Ecco per una volta i distributori italiani danno un idea di quello che è e che sarà per sempre la saga di Jason Bourne: il miglior esempio degli ultimi anni di un trilogia fatta con coerenza e passione. Detto questo c’è da dire che lo sciacallo (mi viene in mente solo il film di Zinnemann) lo avranno visto solo i distributori italiani. Ok, estrapolazione del cavolo, passiamo al film. La regia viene di nuovo affidata all’istrione con tendenze al Parkinson (con tutto il rispetto possibile per la malattia) di nome Paul Greengrass, già autore del notevole secondo capitolo e di altri buoni prodotti più o meno politici (in realtà lui è un regista di cronaca). Difatti per la prima volta la saga cerca di fare politica. Ed ecco spuntare come per magia il termine “omicidio preventivo da parte di agenzie segrete”. Cose brutali che ormai non sono più ipotesi di complotto, ma cronaca. Quella cronaca scritta su un trafiletto di qualche giornale (naturalmente non italiano, non si sa mai). Ecco un altro caratteristica di questo ultimo capitolo: il giornalismo. Per la prima volta nella saga la storia di Bourne esce dai corridoi dei palazzi dei servizi segreti e si affaccia al mondo reale sulle pagine di un giornale. Ed è strano che poi sia proprio da lì che parta la caccia a Jason Bourne; le grandi teste possono accettare spie e contro spie, giochi di potere e quant’altro ma non possono far sapere al mondo quello che sta succedendo; cioè “omicidio preventivo da parte di agenzie segrete” di cui lo stesso Bourne ne è l’essenza. Tutto torna insomma come gli svariati inseguimenti e lotte, marchio di fabbrica della saga. Da Mosca a Tangeri, da Madrid a New York ci sarà sempre da menare o da spingere a tavoletta l’auto (o la moto. la grande novità) in inverosimili inseguimenti. Inutile dire che anche questa volta questi non tradiscono l’attesa ma se vogliamo proprio mettere i puntini sulle “i” non aggiungono molto a quelli che avevamo già visto nei primi due capitoli. Associamo poì un finale semplice che riesce a concludere la saga con intelligenza e convinzione e avrete un idea di che cosa è la saga di Bourne. Un plauso al responsabile del casting per la scelta dei comprimari; dal primo capitolo si sono affacciati gente del calibro di Chris Cooper, Clive Owen, Franka Potente, Karl Urban, Joan Allen, Brian Cox, David Strathairn, Scott Glenn, Paddy Considine e Albert Finney, aggiunti al fatto che Matt Damon in tutta la saga parla pochissimo; è un altro valore aggiunto in più da accreditare alla saga.

di Daniele Pellegrini

domenica 4 novembre 2007

QUEL TRENO PER YUMA


3:10 To Yuma

UK 2007

REGIA

James Mangold

INTERPRETI

Christian Bale, Ben Foster, Russell Crowe, Alan Tudyk, Vinessa Shaw, Peter Fonda, Gretchen Mol, Kevin Durand

SCENEGGIATURA

Halsted Welles, Michael Brandt, Derek Haas

Più che un remake, questo di James Mangold è una rivisitazione blockbuster del racconto di Elmore Leonard che dopotutto era l'elemento più forte del film. Mangold non è incapace, i problemi dei suoi film sono semplicemente una mentalità che dà più peso ad elementi che tendono a annacquare un vino che altrimenti può inebriare. Vedasi l'impronunciabile biopic su Johnny Cash. In 3:10 To Yuma in fin dei conti ci sono elementi positivi ed altri negativi. Non era difficile dare forza alla esperienza di convivenza forzata tra il feroce bandito Ben Wade ed l'umile contadino Dan Evans quando hai come interpreti Russell Crowe e Christian Bale. Ed infatti i due personaggi giganteggiano,le frasi rimbombano nelle loro bocche e rapiscono troppo la scena per biasimare le inspiegabili lungaggini che vessano sul corpo centrale del film. In effetti il film è assurdamente lungo e non tiene conto della suspance che teneva l'originale, trasformando il film in una epica storia d'onore tra due personaggi fortissimi. Eppure quello che era sulla carta era altro. E infatti è nel finale(cambiato per l'occasione) che il film prende quota e ritmo,complice una ritmo tamburellante ed una regia nerboruta. Mangold ha fatto quello che spesso tentano di fare i registi che oggi(raramente) tentano di riportare in auge il western: guardano un sacco di vecchi film del genere trovando maggiormente interessanti gli spaghetti western e quindi ne aggiungono gli elementi nel film. Se il film originale era uno western di regia grossomodo classica con qualche elemento differente dal solito, il suo remake è un western sensazionalista e fracassone che prende regia e molte trovate dalla tradizione italiana. Il film alla fine funziona perchè gli elementi sono professionali, attori di personalità (compreso un Ben Foster in stato di grazia)e dopotutto rispetto per il modello originale.

di Gianluigi Perrone

STARDUST


Stardust

UK 2007

REGIA

Matthew Vaughn

INTERPRETI

Charlie Cox, Sienna Miller, Peter O'Toole, Mark Strong, Jason Flemyng, Michelle Pfeiffer, Robert De Niro e Claire Danes

SCENEGGIATURA

Jane Goldman e Matthew Vaughn

Che il fantasy sia di moda è un dato di fatto; a pochi anni dal portentoso successo del Signore degli anelli già si può fare un piccolo bilancio sull’ enorme quantità di pellicole ambientate in mondi fantastici e magici. Tralasciando l’adolescenziale Harry Potter che fa gioco a se, purtroppo il genere sembrava ancorarsi a prodotti più o meno innocui; film che generavano scarso interesse se non avevi meno di dieci anni. Serviva un po’ di maturità nel genere; e dove trovarla se non in Neil Gaiman vero cantore del new fantasy letterario. Matthew Vaughn, già produttore di Ritchie e nonché regista del bellissimo Layer Cake (da noi uscito con il titolo di Pusher), deve aver capito subito il potenziale di tale operazione. Un Gaiman trasportato al cinema con parecchi soldi di budget è un autentica miniera d’oro. Peccato che scelga di fare il romanzo più deliziosamente classico dello scrittore. Stardust alla fine non è altro che un fantasy vecchio stile ringiovanito dagli effetti speciale che cerca di ricalcare le orme degli ormai classici La storia fantastica e Willow. Il rischio è di cadere in un restyling ridicolo; per fortuna gli riesce quasi tutto. Come avevo detto le basi sono classiche; Vaughn si preoccupa principalmente di creare una storia che sia più il veloce possibile. Non gli interessano per fortuna le piccole sfumature o le grandi scene epiche. In Stardust c’è la storia (una cometa caduta o l’eredità del Re) e grandi e piccoli personaggi che interagiscono con essa nel modo più semplice e divertente possibile. Prendete il capitano Shakespears, interpretato finalmente da un ottimo DeNiro; un pirata che nasconde alla ciurma il suo essere gay. Un personaggio talmente goliardico che pure la sua breve apparizione sarà elettrizzante. O i fantasmi dei potenziali re uccisi, che seguono le vicende da spettatori non paganti. In poche parole Stardust è un opera essenziale e divertente che di certo non deluderà gli spettatori di qualsiasi età. C’è solo un pò di malinconia nel vedere anni fa la trasposizione di MirrorMask in versione low “Tiratissimo” budget e l’incubo di non vedere mai un film su Sandman o American Gods. Speriamo solo che questo Stardust abbia aperto la coscienza dei produttori.

di Daniele Pellegrini

INVASION


Invasion

USA 2007

REGIA

Oliver Hirschbiegel e James McTeigue

INTERPRETI

Nicole Kidman, Daniel Craig, Jeremy Northam, Jeffrey Wright

SCENEGGIATURA

David Kajganich

A quanto stiamo? Al terzo rifacimento. E pensare che ero pure ben accetto da l'idea di una rimodernizzazione dell'invasione degli ultracorpi di Don Siegel. In fin dei conti, come nel primo, anche Kaufman e Ferrara avevano usato il racconto di Jack Finney come specchio delle paure dell'epoca. Insomma visto come siamo messi c'è materiale per ricamarci sopra. Eppure c'è qualcosa che non quadra nella versione di Oliver Hirschbiegel (sostituito nel finale da McTeigue). Un male che affligge molti film del nuovo millennio; la spiegazione scientifica. La paura in cambio di paroloni come cellula, micro-organismi e DNA. Un baratto difficile da accettare per chi si aspetta un film con un minimo di tensione. Non sarò io a dare lezioni di cinema a chi lo fa di mestiere; ma è l'ignoto che fa paura. Il risultato di questa decisione può portare solo a un film noioso, presuntuoso e senza la consapevolezza di come finirlo. Eppure da salvare c'è la protagonista (Nicole Kidman), spaesata spettatrice di una carneficina. Tutti si chiedono perché o per cosa mentre a lei interessa solo di salvare suo figlio. Agisce per un istinto naturale; la cara e vecchia sopravvivenza. Risulterà in fin dei conti l'unico personaggio vero e interessante di un film sterile e scritto male (chiedete al povero Daniel Craig, a lui le battute peggiori del film). Avevo detto prima che il film non aveva la consapevolezza di come finire. Almeno questa è la sensazione dopo un'oretta di film. Il risultato è ancora peggio. Un bieco tentativo di trasformare un film noioso ma pure sempre intelligente in teatrino mal riuscito per l'intrattenimento. Un distacco enorme che fa scivolare il film in un inverosimile happy end. Quindi senza fare le dovute differenze con il finale strepitoso dell'invasione degli ultracorpi di Kaufman (da noi uscito con il titolo Terrore dallo spazio profondo) mi piacerebbe giudicare il film con il materiale scartato da McTeigue. Solo così si può dare un giudizio obiettivo di Invasion. Perchè per quello che ho visto è pessimo e la maggior parte delle colpe vanno distribuite negli ultimi minuti del film. Il resto poteva essere interessante. Giudizio in sospeso quindi.

di Daniele Pellegrini

sabato 3 novembre 2007

LA TERZA MADRE



La Terza Madre

ITA 2007

REGIA

Dario Argento

INTERPRETI

Asia Argento, Udo Kier, Robert Madison, Clive Riche, Coralina Cataldi Tassoni, Moran Atias, Tommaso Banfi

SCENEGGIATURA

Dario Argento, Jace Anderson , Walter Fasano, Adam Gierasch, Simona Simonetti

Allora siamo tutti d'accordo che Dario ultimamente(un paio di lustri) non è al suo massimo. Però almeno a livello visivo i Masters of Horror lasciavanop presagire che ci fosse un po' più di coscienza del mezzo cinematografico rispetto a disastri come Ti Piace Hitchcok o Il Cartaio. Bene, era presumibile che per La Terza Madre, terzo film della serie dopo due film veramente belli come Suspiria e Inferno, ci fosse un po' più di cura stilistica per cercare di non fare brutta figura. D'altronde è un film attesissimo. Ebbene niente! Anzi peggio del peggio. Sì perchè sinceramente Non Ho Sonno o Il Cartaio, con tutti i difetti di sceneggiatura che potevano avere, non arrivano al nulla de La Trza Madre. Il film non parla di niente, c'è semplicemente Asia Argento che corre inseguita da qualcosa di mostruoso. Sembra che abbiano girato solo scene di omicidio quanto più cafonemente violente possibile senza metterci quelle di raccordo. Non si riesce a capire come sia possibile fare un lavoro tanto pessimo. Nemmeno nel peggior amatoriale si incappa in scivoloni del genere. A parte le musiche di Simonetti, che sono belle, con la canzone cantata da Dani dei Cradle of Filth, non c'è niente altro che si salvi. Niente. Addirittura incomprensibile come possano aver ridotto così il trucco, che non rivela un minimo di capacità. Spingono su gore e sesso manco stessimo parlando dell'ultimo film tedesco prodotto a zero budget, la Moran Atias compare giusto per mostrare il pelo. Non si riesce veramente a crederci a quanto sia banale la trama. Non c'è molto da dire se non che il film semplicemente non c'è.

di Gianluigi Perrone

martedì 16 ottobre 2007

REIGN OVER ME


Reign over me

USA 2007

REGIA

Mike Binder

INTERPRETI

Adam Sandler, Don Cheadle, Jada Pinkett Smith, Liv Tyler, Mike Binder, Donald Sutherland

SCENEGGIATURA

Mike Binder

Alan Johnson (Don Cheadle) è un Dentista di New York, debilitato da un moglie dolente e intrappolato da un lavoro non soddisfacente. Un giorno, casualmente, incontra Charlie Fineman (Adam Sandler), suo vecchio compagno di università, dilaniato dalla perdita della propria famiglia nel fatidico 11 settembre. Charlie per paura di ricordare il suo dramma famigliare si chiude completamente al mondo, creandone uno suo fatto di musica anni '70, Mel Brooks, ristoranti Cinesi e Shadow of Colossus. Il Dott. Johson cercherà di aiutare Charlie a ricordare. Naturalmente è facile parlare di 11 settembre: la tragedia e l'orrore erano sotto gli occhi di tutti. Quello che non è facile è parlare del post-11 settembre: i giorni della paura, dell'incomunicabilità, della voglia di non tornare indietro a riflettere. Reign over me parla di questo. Charlie è solo uno dei tanti alienati che si chiude come un riccio pur di non affrontare le proprie paure in un città soffocata dall'incapacità di giustizia (e la giustizia non è la legge del taglione). New York (incredibilmente fotografata) è il grosso colosso che pesa sulle spalle dei loro abitanti (importante in questo caso la similitudine con Shadow of Colossus). Charlie, non ha fatto niente di speciale; a differenza degl'altri ha trovato solo il modo per non piangere. Magari non è per amicizia ma più per curiosità (come ogni persona al mondo davanti ad un Tv) che il dott. Johnson lo accompagna verso il viaggio per ricordare. Lui vuole sapere. E' desideroso di sapere come può essere stare da soli: se c'è plausibilità nell'isolamento. Lui vuole essere Charlie senza il dolore. Un modo egoistico per non affrontare i problemi. Eppure lui non ha sofferto nessuna perdita nell' 11 settembre, ma vuole scappare come Charlie. L'11 settembre forse è solo il giorno in cui la maggior parte della popolazione si è resa conto di essere indeterminante per le sorti del mondo. E' se non c'è voglia di parlarne, resta solo la frustrazione. Magari mi sbaglierò, ma questo Reign over me (citazione di una canzone di Quadrophenia degli Who) non è il semplice lacrima movie anche se dal finale si direbbe di si. Manca la compatibilità tra i personaggi e gli spettatori. Nessuno vorrebbe essere un uomo che asseconda i problemi e di certo nessuno verserà mai lacrime per dei sociopatici volontari. Questo non significa che il film non emoziona, anzi il motore principale del film è emotivo. L'attesa per quel pianto liberatorio è snervante quanto basta per renderlo uno dei film più drammatici dell'anno. Ma c'è dell' altro in questo Reign over me: un dito medio alzato verso un mondo che non si rispecchia più. Quella voglia maledetta di essere lasciati in pace. Qualche parola va spesa anche per un monumentale Adam Sandler. In precedenza non avevo grande simpatia per questo attore (anche quando aveva lavorato con Anderson). Ma la sua interpretazione in questo film a metà tra il drammatico e il buffo (ricorda molto il primo Hoffman) vale da solo tutto il film. Applausi per lui.

di Daniele Pellegrini

lunedì 15 ottobre 2007

MR BROOKS

Mr Brooks

USA 2007

REGIA

Bruce A. Evans

INTERPRETI

Kevin Costner, Dane Cook, Demi Moore, William Hurt

SCENEGGIATURA

Bruce A. Evans,Raynold Gideon




Earl Brooks (Kevin Costner) è un famoso imprenditore, uomo dell'anno ma è sopratutto il killer dell'impronte. Doppia personalità o secondo lavoro: chiamatelo come vi pare, ma Mr.Brooks è bravo in quello che fa. Tanto bravo a cancellare le prove che nessuno è ancora riuscito a prenderlo. Vorrebbe smettere, ma il suo Alter Ego di nome Marshall (William Hurt) glielo impedisce. Un giorno per errore durante un omicidio lascia le finestre aperte e un fotografo voyeurista (Dane Cook) scatta delle foto e lo ricatta chiedendogli se può insegnargli a diventare un serial killer. Come se non bastasse l' isterica detective Tracy Atwood (Demi Moore) è vicinissima ad incastrare Mr.Brooks.
Improbabilità è il termine giusto per definire questo film. Dove è finita la logica narrativa? mettere in scena un Alter Ego che gigioneggia per due ore di film, fottendosi dei tempi cinematografici, è roba da folli. Per non parlare dell' intuizioni miracolose della detective o di come vengono a contatto i vari personaggio. Il film inoltre costruisce anche delle teorie infondate sull'eredità genetica del serial killer. Magari bastava accentrare la storia sul solo e unico Mr.Brook ma il film ci propina una miriade di personaggi (e di serial killer) che riescono a distogliere lo spettatore dal tema principale. Neanche si può affermare che sia un occasione sprecata in quanto di queste storie c'è ne sono state e c'è ne saranno per sempre. Il tema dello sdoppiamento come quello dell’insospettabilità del serial killer (Petri insegna) è stato usato e abusato spesso dal cinema e Mr. Brooks ne esce al confronto da incompetente . C'è solo un piccolissimo interesse nel vedere un Costner diverso dal solito. Insignificante soddisfazione, insieme al bel finale che non può certo elevare un film come Mr.Brooks.

di Daniele Pellegrini

CEMENTO ARMATO


Cemento Armato

Italia 2007

REGIA

Marco Martani

INTERPRETI

Giorgio Faletti, Nicolas Vaporidis e Carolina Crescentini

SCENEGGIATURA

Fausto Brizzi


Senza mettere in mezzo la polemica noiosa e ipocrita sulla morte vera o presunta del cinema italiano, Cemento armato rimane comunque uno di quei film nati per far discutere. Fa discutere perché realizzato in un periodo in cui sembra che tutti debbano per forza urlare e dimostrare che i generi ancora esistono, e godono di ottima salute. Niente di più falso. Almeno nel caso del film di Marco Martani: tentativo lodevole, indubbiamente, ma se questo è sufficiente a giustificare qualsivoglia risultato, allora significa che la crisi c’è ed è anche grossa. Il motivo della tragica malriuscita di Cemento Armato, a pensarci bene, è uno solo: dimentichiamo per un attimo la sceneggiatura colabrodo e incoerente, i dialoghi da farsa e le interpretazioni dilettantesche, perché hanno il loro ruolo solamente fino a un certo punto. No, il problema del film si chiama televisione. O fiction, che dir si voglia. Cemento armato è talmente subordinato agli standard televisivi di questi tempi da mettere veramente una gran tristezza: non c’è cinema in tutto questo, non c’è nessuna idea, nessuna visione del mondo o delle cose; Cemento Armato vorrebbe volare alto, ma finisce per cadere rovinosamente a terra con un gran tonfo. Trasmettiamolo in prima serata su Canale 5, e vi accorgerete che nessuno saprebbe distinguerlo da un Distretto di polizia qualsiasi: eccola qua la prova del nove. C’è chi, per difenderlo, tira in ballo i poliziotteschi anni 70, di come siano stati sottovalutati all’epoca auspicando tra qualche anno una rivalutazione anche di Cemento Armato: chi sostiene questo dimentica forse che, nel cinema italiano di trent’anni fa - bello o brutto che fosse - la fiction non era ancora cancro per le idee e i generi come invece accade oggi. E la conseguenza è il ridicolo involontario, sempre pronto a fare capolino da dietro l’angolo.

di Giacomo Calzoni

domenica 14 ottobre 2007

RESIDENT EVIL 3


Resident Evil: Extinction

USA 2007

REGIA

Russell Mulcahy

INTERPRETI

Mike Epps, Milla Jovovich, Sienna Guillory, Oded Fehr, Iain Glen

SCENEGGIATURA

Paul W. S. Anderson


Diciamolo: la trilogia di “Resident Evil” è già un classico per le nuove leve al pari forse di come è stata la trilogia romeriana per le vecchie generazioni. Certo facendo le legittime distanze: Romero è un classico, sicuramente più artistico di quanto possa essere mai la saga con Milla Jovovich. Paragonarli sarebbe già ingrato, come mettere a confronto un Kubrick con un Danny Boyle, anche se quest’ultimo ha portato sul grande schermo un’interessante e affascinante versione personale di “2001”. Ma è l’approccio con il tema a rendere paragonabile i due animi: da un lato l’arte, dall’altra la fruizione popolare, ma con lo stessa identico tema, quello degli zombi. “Mezzogiorno di fuoco” è un capolavoro? Certo. Tex Willer è immondizia? No di certo. Nel 1979 quando gli Zombi di “Dawn of the dead” irruppero su tutti gli schermi trovarono un mondo lontano da questo odierno, niente computer, che cazzo era la Ps2, l’X box, il Nintendo, loro eravamo noi, ora non più. “Resident evil” nasce da un videogame che nasce dai film di Romero, due mondi di per se stesso incolmabili, tanto che lo stesso Romero fallirà nel tentativo di dirigere il primo “Resident evil” e ci riuscirà egregiamente il quasi sconosciuto Paul W.S. Anderson. Romero è e resta un grandissimo, sia detto senza timore, ma ora come ora si agita come un ritornante di Anne Rice tra prove sbagliate (Bruiser) ed altre che vent’anni prima sarebbero state innovative (Land of the dead). Questo non è il suo mondo, i suoi ragazzi cadaveri ne hanno fatta di strada da “La notte dei morti viventi”, si sono fatti furbi, corrono persino, questa “Terra dei morti viventi” dev’essere descritta da altri. E perciò entra in campo “Resident Evil”, la zombie saga per eccellenza del nuovo millennio. Quello che contraddistingue i tre capitoli è la diversità della regia, l’approccio dei tre registi nell’affrontare la stessa vicenda nel suo evolversi: più classica in Anderson, più adrenalinica in Witt e più apocalittica in Mulcahy. Ogni tassello di questa epopea è uno sguardo in una diversa rappresentazione dell’irreale narrato. In questa terza parte Mulcahy ci porta direttamente all’inferno, una landa desolata ormai dominio dei morti viventi, in un’idea saccheggiata e ampliata da “Day of the dead” di Romero. Mulcahy sia chiaro è regista inetto, ha girato di buono in vita sua solo due o tre film, ma qui è in uno stato di grazia senza paragoni, non cade mai nel facile virtuosismo, ma mantiene una regia sobria, quasi fordiana. E qui siamo in campo western senza dubbio, con queste carovane di disperati che passano di città in città, dove i cattivi, gli indiani, sono stati sostituiti da zombi. Non esiste sceneggiatura forse è vero, ma c’è un divertissement non banale nel passare da schema in schema come si trattasse di un videogioco della serie. Si ha la famiglia di stupratori (cannibali?) con cani mutanti al servizio, i corvi spolpa carne, gli zombi podisti e quelli più lenti, ogni quadro sempre più difficile fino al boss finale, uno scienziato che i puristi chiameranno Tyrant, dalle sembianze di un umanoide tentacolare. La sceneggiatura banalizza quello che poteva essere studiato meglio (i rapporti coi personaggi, i legami col capitolo precedente), ma gioca con i luoghi comuni della serie con una certa abilità (vedere l’intro con la morte dell’eroina). Anche l’impianto scenografico fa la sua bella figura, con una Las Vegas diventata discarica del mondo, roba certo non di seconda scelta. E’ cinema pop corn sicuramente, per alcuni cafonata usa e getta, ma diamine tremendamente divertente. E come fare a non parteggiare per l’eroe quando sorridente si fa saltare in aria mentre fuma un cannone? E’ cinema all’ennesima potenza non ci sono dubbi.

di Andrea Lanza

mercoledì 10 ottobre 2007

SHREK TERZO


Shrek the Third

USA 2007

REGIA

Raman Hui, Chris Miller

INTERPRETI

Mike Myers, Eddie Murphy,Cameron Diaz, Antonio Banderas, John Cleese

SCENEGGIATURA

Jeffrey Price,Peter S. Seaman,Jon Zack

La saga di Shrek arriva al terzo capitolo e segna un'altra tacca importante per le vittorie della computer grafica. Questa volta Shrek si deve confrontare con la paternità e la corte di Far Far Away con l'attacco dei cattivi a capo del principe Azzurro. Al di là degli eventi, quello che diverte sono le gag incredibilmente esilaranti e la bravura degli sceneggiatori a inquadrare dei personaggi da fiaba in situazioni moderne ed esilaranti. Ogni personaggio diventa un grande comico slapstick, si umanizzano in maniera mi fatta prima. Tecnicamente si fanno passi da gigante. Oramai quello che non è plausibile sono solo i volti. Peli,lana,cotone,roccia sono tutti reali. L'effetto è consegnato ancora di più grazie alla regia che sembra esistere e muoversi in un ambiente che in realtà non esiste. Quindi dovrebbe essere inutile ma in realtà è una ripresa geniale per rendere rendere tutto reale,soprattutto nelle scene d'azione.

di Gianluigi Perrone

UN'IMPRESA DA DIO


Evan Almighty

USA 2007

REGIA

Tom Shadyac

INTERPRETI

Steve Carell, Morgan Freeman, Lauren Graham, John Goodman.

SCENEGGIATURA

Steve Oedekerk, Joel Cohen

Il primo film, Una Settimana da Dio di Tom Shadyac, era un ritorno commerciale di Jim Carrey a ruoli più rassicuranti per il pubblico, con il team di film fortunati come Bugiardo Bugiardo. Qui Steve Carrell, star del Saturday Night Live, era solo una comparda. Adesso, con i successi di 40 anni vergine e la serie The Office, versione americana della serie inglese, viene promosso a protagonista ed il film diventa Evan Almighty. Qui sappiamo subito che il protagonista diventa da giornalista televisivo a membro del congresso a Washington D.C. e ha una nuova vita piena di autocelebrazione,fitta di impegni e assolutamente priva di dedizione della famiglia. Dio, che come si sa gira solo da quelle parti, negli States(c' ha la casa a Los Angeles nella casa che era di Marlon Brando, vicino di Jack Nicholson) lo incontra e lo intima a costruire una nuova arca dell'alleanza. Sapevate che Mosè era stato scelto per avere la barba e i capelli lunghi? Perchè a Evan cominciano a crescere e si trova costretto a portare famiglia e 150 animali a spasso con il barcone. Già, peccato che Steve Carrell non è Jim Carrey e che senza l'istrionico attore a rimbalzare per i muri non c'è soluzione. Non che Carrell non sia efficace ma ha una comicità diversa, più tongue-in-cheeck, che diventa assurda quando è Brick in Anchorman o il buon sfigatone di 40 Anni Vergine. Però non c'è mordente in Evan Almighty e il film si fa guardare solo per l'immane uso di computer grafica.

di Gianluigi Perrone

martedì 25 settembre 2007

28 SETTIMANE DOPO


28 Weeks Later

UK ,Spagna 2007

REGIA

Juan Carlos Fresnadillo

INTERPRETI

Robert Carlyle,Jeremy Renner,Rose Byrne,Imogen Poots e Mackintosh Muggleton

SCENEGGIATURA

Rowan Joffe e Juan Carlos Fresnadillo

Quello che fa effetto della saga biohazard di 28 After è questa caratteristica degli infetti dalla rabbia di spruzzare e vomitare saliva e sangue ovunque. Ha un che di malato che fa venire voglia di lavarsi in una vasca di plutonio. Se fossimo in era da fobia AIDS questi film sarebbero considerati rivelatori. Lo era The Crazies di Romero di cui non sono altro che remake. Per il sequel di 28 Giorni Dopo, Juan Carlos Fresnadillo(Intacto) immagina una diffusione trasversale della rabbia e di un gene immune in alcuni,ovviamente se trattasi di un bambino è ancora più accattivante. Il film è una lunga fuga disperata dall'invasione di questi esseri mentre il governo ha raso al suolo Londra e comincia a fare piazza pulita di civili. C'è un neanche tanto voluto sottotesto antibellico nel film che giocoforza analizza situazioni di guerriglia urbana molto efficaci che sono il pane quotidiano su territorio di guerra. Il film riesce grazie a diversi elementi calibrati, una regia furiosa e compassata che si permette anche di fare degli esperimenti sulla fotografia digitale come una lunga scena in effetto notte riuscita molto bene. A questo si aggiunga un ottimo cast su cui naturalmente spicca,quantomeno per familiarità,Robert Carlyle che ha un personaggio che subisce una insolita espiazione evolutiva. Ottimi anche Jeremy Renner(Dahmer),Rose Byrne e i due portatori sani,Imogen Poots e Mackintosh Muggleton. In un ruolo secondario c'è anche Harold Perrineau,ex Oz e Lost. Il film naturalmente sfrutta diverse influenze, naturalmente soprattutto zombifiche romeriane ma ha anche richiami a Hitchcock e strutturalmente a Aliens di James Cameron. Sarebbe curioso sapere se sono volontari o subconsci. Comunque il film non fa assolutamente rimpiangere il predecessore che comunque rimane superiore.

di Gianluigi Perrone

SUPERBAD


Superbad

USA 2007

REGIA

Greg Mottola

INTERPRETI

Jonah Hill,Michael Cera,Christopher Mintz-Plasse, Seth Rogen,Bill Hader,Emma Stone

SCENEGGIATURA

Seth Rogen e Evan Goldberg

E fu così che Superbad conquistò l'America. Successo strabiliante in patria,dove c'è sempre un desiderio di teen comedy da Porky's a Animal Housefino ad American Pie e questa new sensation di Greg Mottola. Scritto da Seth Rogen e Evan Goldberg, ripercorre un po' le loro adolescenze e quelle ditutti in pratica! Infatti quello che va oltre in questo che tutto sommato è un filmcinematograficamente povero, con una sceneggiatura esile e attori azzeccatima non eccezionali neanche come comici, è il fatto che questo è unospecchio genuino di quello che sono i ragazzi. E' un continuo deja vù perchè neanche alle suore si è esenti di dire le peggiori oscenità possibili. Questisono gli adolescenti di oggi e di sempre,le cui pulsioni sessuali sono così intense da poter fare qualsiasi cosa per un orgasmo seppur immaginato. Edinfatti i due protagonisti Seth e Evan, Jonah Hill e Michael Cera,a breve superstar insieme a Christopher Mintz-Plasse, sono alle porte del diploma evogliono salutare il liceo e la loro amicizia con una sana scopata che sperano andentemente di procurarsi facendo ubriacare delle ragazze ad unafesta. Orribile ma assolutamente realistico! Solo che negli States l'alcohol èillegale sotto i 21 e quindi devono mettersi nei guai per procurarselo. Visto che questa parte è troppo esile per un film ci aggiungono la sottotrama assurda(che forse è la cosa più esilarante)dell'amico Fogell, un iper-nerd completamente svalvolato, che finisce nelle mani di due poliziotti scatenati dai passatempi a dir poco criminali. Il tutto ha ritmo da vendere ma soprattutto è al contempo leggero ed efficace grazie ad un linguaccio scurrile fine a sé stesso ma incredibilmente genuino.

di Gianluigi Perrone

SICKO


Sicko

USA 2007

REGIA

Michael Moore

INTERPRETI

/

SCENEGGIATURA

Michael Moore


Per questo nuovo documentario (che,come detto mille volte,documentario non è) a Michael Moore cosa daranno? Il Nobel? Forte dei suoi successi, Moore stavolta se la prende con la Sanità Pubblica,non riuscendo a colpire le lobby farmaceutiche che si sono chiuse a riccio terrorizzate dall'ariete del paffuto regista. Moore non si sforza troppo stavolta. Fa quello che si farebbe bormalmente per attaccere il sistema sanitario di un paese come gli Stati Uniti: mostra gente che sta male e muore abbandonata a sé stessa. Quando si scrive di Moore bisogna premettere che è assolutamente deprecabile il fatto che negli States non ci sia assistenza pubblica ed è giusto che si sappia questo. Però Moore lo fa come sempre in maniera poco chiara,dinonesta e faziosa. Il film sembra scritto per la classe ingnorante ed arrabbiata che non vede l'ora di prendersela con qualcuno per la sua condizione. Moore è deciso a far vedere come in America faccia tutto schifo ed invece nel resto del mondo stanno tutti bene. Va in Canada dove la gente si vanta di stare benissimo,in Inghilterra ed infine in Francia dove solo una babbeo potrebbe fidarsi del fatto che il governo ti lava i panni. Non a cas si parla di paesi molto nazionalisti a cui piace parlarsi a dosso, se fossero venuti in Italia non ci sarebbe stata gente che si vantava così della propria sanità.Infine Moore adotta un falso sfruttamento della proprietà transitiva, fa una spedizione a Guantanamo e si porta dietro alcuni eroi del 9/11 che si sono ammalati sul luogo. L'idea che vorrebbe dare è "se l'ospedale di Guantanamo è migliore di un ospedale medio americano, vuol dire che stanno meglio i terroristi.Ah beh,bella forza. Ed infine va a Cuba dove dovremmo credere che ogni volta che ci entri ti mettono il tappeto rosso. Non è che lui andava con una camera appresso. Roba per chi ci vuole per forza credere.Però devo ringraziare Michael Moore per avermi permesso di scrivere una cosa che dico da molto. Se a Cuba si sta cosi bene ed è tutto così bello PERCHE' DIAVOLO QUALSIASI CUBANA E' DISPOSTA A SPOSARSI CON IL PRIMO CHE PASSA PUR DI ANDARSENE DA LI'????

di Gianluigi Perrone

lunedì 24 settembre 2007

FUNERAL PARTY


Funeral Party

UK 2007

REGIA

Frank Oz

INTERPRETI

Matthew Macfadyen, Keeley Hawes, Andy Nyman, Ewen Bremner, Alan Tudyk
SCENEGGIATURA

Dean Craig



E' più una annotazione che un premessa quella con cui voglio cominciare questa recensione: Frank Oz è britannico e quindi faccia dello humor brittannico. Se è possibile per sempre, visto i risultati entusiasmanti di questo Funeral party. Non è un critica al buon Oz che di cose carine ne ha fatte in abbondanza. Però in un mondo come Hollywood dove, a mio modo di vedere, c'è la spovveduta idea che alla fine conti più l'attore che un buono script (è stato uno dei motivi principali della caduta di Eddy Murphy): ed ecco, come per magia, spuntare fuori cretinate come the Score e la Donna perfetta. Magari mi sbaglio, ma per adesso sono contento Oz abbia avuto buon gusto (naturalmente British) di affidare uno script intelligente quanto grottesco a un cast d'attori sconosciuti (unica eccezione per Tudyk e uno strepitoso Bremner). I risultari si vedono sin da subito. Perchè Funeral Party non è un film che basa il suo umorismo sull' imprint del suo attore protagonista (emblematici in questo caso sono i film di Will Ferrell) ma è un film che punta sull'interpretazione corale da parte di tutto il cast. Ne segue un film armonico e non decentrato. Ma partiamo dalla storia: una ricca o medio borghesia (ma a chi importa?) si ritrova al funerale del patriarca. Niente di così sconvolgentemente triste. Perchè dopo neanche due minuti ecco la prima gag: Daniel, figlio del defunto, davanti al feretro sussurra stupito ai becchini "chi è? Non è mio padre". Da li in poi si riderà (garantito e assicurato) fino alla fine. Niente ripensamenti o cadute di stile. Il film alza sempre di più il tiro tanto che con il passare dei minuti Funeral Pary diventa sempre più scorretto (indimenticabile in questo caso la storia del nano imbucato). Naturalmente la ricetta delle gag è alquanto semplice: si prende un momento solenne e impostato come un funerale e si inserisce un sovvertitore (Valium coretto, la merda del nonno incazzato, l'imbucato, ecc) in modo che la reazione dei protogonisti sia il più bizzarra e grossolana possibile. Facile si. Alquanto facile se non si tiene conto del fatto che la comicità è ritmo. E di ritmo Funeral party ne avrebbe da regalare. Oz riesce a gestire anche tre gag alla volta senza andare ad intaccare l'equilibrio della storia. Tutto è sincronizzato come un orologio svizzero, merito e qui mi ripeto dello straordinario cast e di uno script brillante. Applausi di quelli sinceri quindi ad quest'ultima opera di Oz. Forse il miglior Oz degl'ultimi tempi. Di sicuro il più onesto con se stesso.

di Daniele Pellegrini

SEVERANCE - TAGLI AL PERSONALE


Severance

UK 2006

REGIA

Christopher Smith

INTERPRETI

anny Dyer, Laura Harris, Tim McInnerny, Toby Stephens

SCENEGGIATURA

James Moran,Christopher Smith

Per una volta il titolo Italiano per distribuire un film straniero nelle sale ha colto nel segno, “tagli al personale” riassume sarcasticamente tutto il plot.
Ma di cosa parla questo film dal titolo bizzarro? Appunto di personale, ossia di un team di impiegati di una multinazionale di armi che seguendo il buon metodo Toyotista (cercate il significato su Wikipedia se non lo sapete) inaugurato dai Giapponesi, si ritirano in un luogo deserto per creare il salubre ambiente del team di squadra. Una sorta di training per partorire nuove idee e rafforzare lo spirito di gruppo. Già la presentazione dei personaggi è comica, c’è quindi la fresca di turno, il casinaro che si diverte con le droghe ed è completamente leso, il ragazzone timido, quello che si innamora a caso, il capo team che è uno sfigato paranoico tremendo ecc..ecc...
Arrivano dunque in questo posto isolato e vengono dopo poco tempo presi d’assalto da un manipolo di mercenari che vuole far loro la pelle. Più avanti si scoprirà chi sono questi simpatici quanto letali signori. Curioso come il regista, Christopher Smith, quello di Creep per capirci, cambi completamente di registro, passando dall’horror claustrofobico alla commedia horror-splatter.
Il gore c’è eccome, sempre in maniera goliardica ma alcune sequenze sono abbastanza brutali ed è lì il bello, nel far passare da un clima di risate allo shock, o presunto tale, per smembramenti vari, tagliole, decapitazioni e chi ne ha più ne metta.
Vi sono alcune sequenze davvero esilaranti, come quella dell’aereo abbattuto, la quale va direttamente a toccare i nervi scoperti del post 11 settembre. Non è certo un film da prendere particolarmente sul serio, ma la critica alle multinazionali e all’industria delle armi è più che evidente anche se in maniera sarcastica. Diciamo che si va a stuzzicare cose risapute, in maniera tutt’altro che faziosa, ma innegabile nello stato di fatto. Guardatevi la sequenza della decapitazione attentamente perché è davvero indimenticabile. Se vi piacciono le tette al vento in stile anni ’80 (capirete), avrete la vostra sferzata di action-tamarro anni ’80. Se riconoscete la scena vuol dire che un po’ tamarri lo siete anche voi. Ma non si nasconde un tamarro dentro ognuno di noi?
Deliri a parte questo Severance Tagli Al Personale non è affatto un film brutto e tanto meno stupido, merita senz’altro una visione, anche due magari, giusto per entrare meglio nell’atmosfera delirante, con questo non voglio dire che alcuni sono poco attenti, o forse si, ma andatelo a vedere ne vale la pena. Ben vengano prodotti del genere, di questo genere e che se ne infischiano di prendersi sul serio, almeno apparentemente. Spariamo al cielo!

di Davide Casale