USA 2007
REGIA
Russell Mulcahy
INTERPRETI
Mike Epps, Milla Jovovich, Sienna Guillory, Oded Fehr, Iain Glen
SCENEGGIATURA
Paul W. S. Anderson
Diciamolo: la trilogia di “Resident Evil” è già un classico per le nuove leve al pari forse di come è stata la trilogia romeriana per le vecchie generazioni. Certo facendo le legittime distanze: Romero è un classico, sicuramente più artistico di quanto possa essere mai la saga con Milla Jovovich. Paragonarli sarebbe già ingrato, come mettere a confronto un Kubrick con un Danny Boyle, anche se quest’ultimo ha portato sul grande schermo un’interessante e affascinante versione personale di “2001”. Ma è l’approccio con il tema a rendere paragonabile i due animi: da un lato l’arte, dall’altra la fruizione popolare, ma con lo stessa identico tema, quello degli zombi. “Mezzogiorno di fuoco” è un capolavoro? Certo. Tex Willer è immondizia? No di certo. Nel 1979 quando gli Zombi di “Dawn of the dead” irruppero su tutti gli schermi trovarono un mondo lontano da questo odierno, niente computer, che cazzo era la Ps2, l’X box, il Nintendo, loro eravamo noi, ora non più. “Resident evil” nasce da un videogame che nasce dai film di Romero, due mondi di per se stesso incolmabili, tanto che lo stesso Romero fallirà nel tentativo di dirigere il primo “Resident evil” e ci riuscirà egregiamente il quasi sconosciuto Paul W.S. Anderson. Romero è e resta un grandissimo, sia detto senza timore, ma ora come ora si agita come un ritornante di Anne Rice tra prove sbagliate (Bruiser) ed altre che vent’anni prima sarebbero state innovative (Land of the dead). Questo non è il suo mondo, i suoi ragazzi cadaveri ne hanno fatta di strada da “La notte dei morti viventi”, si sono fatti furbi, corrono persino, questa “Terra dei morti viventi” dev’essere descritta da altri. E perciò entra in campo “Resident Evil”, la zombie saga per eccellenza del nuovo millennio. Quello che contraddistingue i tre capitoli è la diversità della regia, l’approccio dei tre registi nell’affrontare la stessa vicenda nel suo evolversi: più classica in Anderson, più adrenalinica in Witt e più apocalittica in Mulcahy. Ogni tassello di questa epopea è uno sguardo in una diversa rappresentazione dell’irreale narrato. In questa terza parte Mulcahy ci porta direttamente all’inferno, una landa desolata ormai dominio dei morti viventi, in un’idea saccheggiata e ampliata da “Day of the dead” di Romero. Mulcahy sia chiaro è regista inetto, ha girato di buono in vita sua solo due o tre film, ma qui è in uno stato di grazia senza paragoni, non cade mai nel facile virtuosismo, ma mantiene una regia sobria, quasi fordiana. E qui siamo in campo western senza dubbio, con queste carovane di disperati che passano di città in città, dove i cattivi, gli indiani, sono stati sostituiti da zombi. Non esiste sceneggiatura forse è vero, ma c’è un divertissement non banale nel passare da schema in schema come si trattasse di un videogioco della serie. Si ha la famiglia di stupratori (cannibali?) con cani mutanti al servizio, i corvi spolpa carne, gli zombi podisti e quelli più lenti, ogni quadro sempre più difficile fino al boss finale, uno scienziato che i puristi chiameranno Tyrant, dalle sembianze di un umanoide tentacolare. La sceneggiatura banalizza quello che poteva essere studiato meglio (i rapporti coi personaggi, i legami col capitolo precedente), ma gioca con i luoghi comuni della serie con una certa abilità (vedere l’intro con la morte dell’eroina). Anche l’impianto scenografico fa la sua bella figura, con una Las Vegas diventata discarica del mondo, roba certo non di seconda scelta. E’ cinema pop corn sicuramente, per alcuni cafonata usa e getta, ma diamine tremendamente divertente. E come fare a non parteggiare per l’eroe quando sorridente si fa saltare in aria mentre fuma un cannone? E’ cinema all’ennesima potenza non ci sono dubbi.
di Andrea Lanza
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