mercoledì 12 dicembre 2007

HITMAN - L'ASSASSINO


Hitman

Francia,USA 2007

REGIA

Xavier Gens

INTERPRETI

Timothy Olyphant, Dougray Scott, Olga Kurylenko, Robert Knepper, Ulrich Thomsen, Henry Ian Cusick, Michael Offei.

SCENEGGIATURA

Skip Woods

Leggenda vuole che il regista Xavier Gens, alla sua seconda regia, si sia chiuso in casa a vedere ininterrottamente soltanto action di Hong Kong, dai classici di John Woo a quelli più recenti di Johnnie To. Effettivamente il lavoro lo si nota nelle sparatorie molto curate e orchestrate in maniera ineccepibile. Ma è anche il limite di un film che vive soprattutto d’azione senza essere glorificato da una trama decente e da personaggi che non superano la macchietta. Difficile d’altronde trarre di più da un gioco che ha la sua forza nel poter compiere missioni senza essere notato, dove l’azione adrenalinica di un “Doom” lascia lo spazio ad una meditazione anticipatrice che ricorda una regola degli scacchi: “Per vincere non pensare alla prima, ma alla terza mossa”. In questo lode a Gens che trasporta dal mondo videoludico a quello cinematografico una pellicola impossibile da girare, cercandola di nobilitare con una tecnica a tratti impressionante. Il reparto attori è perfetto: Timothy Olyphant incarna perfettamente l’agente 47 del videogioco omonimo, un killer misogino e silenzioso, così come Olga Kurylenko, attrice e modella ucraina, è bella quasi da far male. A incendiare il cuore di molti fan del gioco la ricostruzione fedele di alcuni scenari e l’idea fulminante e geniale di mettere in scena il protagonista in una stanza dove due ragazzini giocano al videogame di Hitman. Peccato che il budget sembri poverissimo con più interni che esterni, con città della Repubblica Ceca camuffate da Mosca o Londra. “Hitman” è certo un film da vedere, molto divertente, ma rimane l’amaro in bocca che sarebbe potuto essere qualcosa di più con un minimo sforzo nello scrivere una sceneggiatura decente. Peccato poi che il film sia stato stuprato in fase di montaggio per renderlo più commerciale ampliando la comunque esigua storia d’amore tra il killer e la bella prostituta russa. Produce l’ex divo d’azione Vin Diesel con la complicità del marpione Luc Besson. Cammeo straordinario del T-Bag di “Prison break”.

di Andrea Lanza

venerdì 7 dicembre 2007

1408


1408

USA 2007

REGIA

Mikael Hafström

INTERPRETI

John Cusack, Samuel L. Jackson, Mary McCormack, Jasmine Jessica Anthony

SCENEGGIATURA

Matt Greenberg, Scott Alexander, Larry Karaszewski

Belli i tempi in cui Stephen King era sinonimo di garanzia per libri o film. Ora i suoi lettori (e spettatori) sono cresciuti e di merda ne hanno inghiottita a iosa, hanno capito che non per forza il binomio libro buono da’ un film buono. Certo non tutti i registi sono Carpenter o Romero e col senno di poi l’It televisivo era per lo meno vedibile, ma ultimamente le opere tratte da King oltre ad essersi notevolmente assottigliate nel tempo sono diventati compitini presuntuosi che ruotano intorno a quei due o tre temi cari allo scrittore del Maine. Questo 1408 non fa difetto alla sequela di filmetti dimenticabili, anzi ne diviene l’alfiere più autorevole con una pochezza di idee preoccupante e attori di un certo calibro come Cusack o Lee Jackson sciupati in marchette alimentari. La storia è sempre quella, da Shining in avanti, con una camera diabolica che spinge alla follia chi ha il coraggio di affittarla. Interessante certo lo sforzo in fase di scrittura di rendere ancora più umano il personaggio del protagonista, rispetto al raccontino originale di King, affibbiandogli un passato luttuoso con figlia uccisa da malattia. Poteva essere una pellicola quindi anche gradevole se il regista svedese Mikael Hafström e i suoi tre sceneggiatori avessero avuto per lo meno un’idea di cosa sia un film del terrore non banale e tutto il plot invece gira su stesso regalandoci almeno due finali senza mai sapere dove parare. 1408 poteva essere un episodio ottimo di “Masters of horror” se fosse durato 50 minuti, ma i suoi 104 minuti pesano come un macigno. Non aiuta poi certo che i produttori, come spesso in tanto cinema recente d’autore o no (Captivity, Hitman), abbiano defenestrato nel final cut il regista in favore di leggi commerciali non molto condivisibili sul piano qualitativo. Quindi nel volere di Mikael Hafström (autore di un interessante “Evil” e di un brutto “Derailed”) il finale era molto più plumbeo e cattivo. Oddio, non che la cosa avrebbe alzato più di tanto il tiro, ma per lo meno si sarebbe potuto giudicare l’opera nel suo complesso. Consigliato solo a chi è stato dal 1940 in Himalaya senza possibilità di andare al cinema o vedere la tv.

di Andrea Lanza

martedì 4 dicembre 2007

LA PROMESSA DELL'ASSASSINO


Eastern Promises

USA 2007

REGIA

David Cronenberg

INTERPRETI

Naomi Watts, Viggo Mortensen, Vincent Cassel, Armin Mueller-Stahl,

SCENEGGIATURA

Steven Knight

Questa volta un noir puro per Cronenberg, o ancora , un classico gangster movie che, secondo la sceneggiatura di Steven Knight, non sarebbe dispiaciuto a Raoul Walsh. Già, perchè stavolta siamo su territori già ampiamente calcati nella storia del cinema, quasi banali nella loro classicità: le regole della criminalità organizzata come l'immaginario comune le ha assimilate. I dettami del Mafia Movie vengono rispettati pedissequamente e probabilmente in mano ad altri il risultato non sarebbe stato il medesimo. Cronenberg invece trasforma in delirio anatomico tutto ciò che tocca, passa attraverso gli scontri emotivi dei personaggi per suggerire le implicazioni dei loro corpi, più che mai organici, più che mai involucri. L'involucro che contiene la vera protagonista del film, Christine, nata da una madre 14enne morta per dissanguamento,figlia di una violenza carnale e che nel suo dna ha la rivoluzione delle gerarchie criminali costituite. L'involucro di tatuaggi e cicatrici che contiene Nicholai, un gigantesco Viggo Mortensen, un enigma vivente, l'aspirante Re che nasconde dolorosamente il vero se stesso con l'immagine incredibilmente suggestiva, cool, che può avere un hitman della mafia russa. Per sua stessa ammissione privo di madre e padre, morto a 15 anni e da allora abitante della "zona" dove le emozioni non solcano lo sguardo. L'involucro scomodo in cui è contenuto Kirill, Vincent Cassell, il migliore in assoluto, il principe incapace di potestà, insicuro di una identità reietta, sia essa familiare (il sangue) sia essa sessuale (la presunta omosessualità), personaggio complesso ed indispensabile. L'involucro che contiene il mite Semyon, Armin Mueller-Stahl, il Re apparentemente giusto e buono che nasconde dentro la Bestia, capace delle azioni più basse, una figura quasi horror nella sua inespressa psicopatia. Questi sono i corpi senzienti in cui sono sepolti gli orribili segreti. C'è tutta una poetica attraverso parole e sentenze che dipingono un universo profondamente cronenberghiano("seppellisci i segreti coi propri corpi"-"corpo,singolare", "siamo nati già sepolti,io e mio padre","dagli schiavi nascono schiavi","per ragioni poetiche,suggerirei il suo sangue"), frasi intense e "coreografiche" ma fondamentali per Cronenberg che ne trascrive sopra naturalmente i propri temi. Come nella più grande bladefight di tutti i tempi, in cui il guerriero più valoroso, nudo e feroce, conquista il diritto al trono epicamente. Come nel finale solo apparentemente consolatorio, dove nonostante si raggiunga il proposito si ammette, mestamente nello sguardo del nuovo Re, che l'unica soluzione è l'esilio, la negazione di sé, l'abbandono del corpo verso altro.

di Gianluigi Perrone

lunedì 3 dicembre 2007

THE KINGDOM


The Kingdom

USA 2007

REGIA

Peter Berg

INTERPRETI

Jamie Foxx, Chris Cooper, Jennifer Garner, Jason Bateman e Jeremy Piven

SCENEGGIATURA

Matthew Michael Carnahan

Peter Berg è un regista strano. Le opere precedenti a The Kingdom avevano sempre mostrato di più di quanto uno si aspettasse, con un fiuto eccezionale per le storie bizzarre. In the Kingdom succede il contrario. La trama del film è di quelle importanti: Arabia Saudita e U.S.A. Un didascalico riassunto all’inizio del film analizza 100 anni di collaborazioni tra i due paesi e si conclude con un perentorio “L’Arabia Saudita è il primo produttore di petrolio al mondo, gli U.S.A. sono il primi consumatori di petrolio al mondo” . Perfetto! Ma dopo come associare queste informazione al film. La sensazione è che alla fine non interessasse granchè di continuare questo discorso: in tutto il film c’è solo un timido accenno alle differenza di cultura (ma che palle!!) è basta. Il resto si divide in un timido film investigativo dove le soluzione sono le più banali possibili e una lunghissima e indecifrabile sequenza d’azione, molto più simile ad un sparatutto che a una scena di guerra, che fa finire il film in un modesto quadretto: siamo noi occidentali i salvatori e loro le pecore o siamo noi i cattivi e loro un po’ meno cattivi. Difficile costruire una morale dopo aver abbattuto un centinaio di Arabi, pensate se poi il film aveva lo scopo principale di essere di denuncia. Ma dove sta la denuncia: nelle frasi nascoste sussurrate all’orecchio, brutte parole che uscirebbero solo da un benpensante in un salottino privato prima di entrare in un congresso e far accettare alla gente che la guerra è giusta. Sinceramente non si capisce il film dove voglia andare a parare. Vuole essere di denuncia, ma un pochino action. Un po’ pacifista un po’ azionista. Difficile interpretare il senso dell’operazione. Comunque almeno non annoia ed è già qualcosa. Cast innocuo.

di Daniele Pellegrini

ACROSS THE UNIVERSE


Across the Universe

USA 2007

REGIA

Julie Taymor

INTERPRETI

Evan Rachel Wood, Jim Sturgess, Joe Anderson, Dana Fuchs, Martin Luther

SCENEGGIATURA

Dick Clement, Ian La Frenais

All You Need Is Love. Chissà perché tutte le generazione passano come le loro mode, le rivoluzioni, la loro musica. L’unica che stenta ad appannarsi è la cosiddetta generazione dei figli dei fiori. I loro sogni sono ancora i nostri. Il sogno di Julie Taymor era quello di raccontare questa generazione con la musica degli immortali Beatles. Un musical per raccontare la storia d’amore tra Lucy e Jude (ma va’) nei faticosi 1960s. E per la prima volta si può dire che un film Taymor funziona in toto o quasi. E’ pensare che il peso era colossale. Non si può cadere nel banale quando si parla di Sixteen o Beatles: i detrattori sono troppi e le malelingue ti aspettano sempre come avvoltoi. Con furbizia e convinzione la Taymor lascia che sia la musica dei Beatles a raccontare la storia. Ogni pezzo è stato scelto con intelligenza e incanalato nel giusto stile registico diverso per ogni canzone e stato d’animo (la scena Strawberry Fields Forever è uno spettacolo per gli occhi). Il raggiungimento artistico di Across the Universe è incredibile: il capolavoro non è poi così lontano. Ma c’è un difetto, grosso come il monte Everest: i Beatles. Ma siamo sicuri che siano veramente i Beatles i veri cantori di quella generazione. Di sicuro erano e sono i più famosi, ma su questo aspetto si poteva fare meglio. Forse: i Jefferson Airplane (conigli bianchi a posto di Fragole rosse), i Doors, i The Moody Blues o addirittura i fottutissimi Guess Who (il film ne avrebbe guadagnato in tasso alcolico e donne). Ma meglio di tutti sarebbe stato un Medley di tutti i miglior pezzi anni ’60. Perché capolavoro o no il film può piacere solo a chi è appassionato di Beatles (e li conosce profondamente). In ogni caso, escluso il fatto prettamente conoscitivo, Across the Universe è un film che si fa adorare soprattutto per l’incredibile impatto visivo e per quella spensieratezza narrativa che in qualche modo riesce ad emozionare. Gli attori tutti bravi nessuno escluso, cantano e ballano con una leggerezza sublime. Cammei per Bono (un grande Boh) e Joe Cocker che invece di rifare Little help from my friends ci delizia con una rivisitazione di Come Together in uno dei migliori momenti del film.

di Daniele Pellegrini