domenica 24 giugno 2007

FOLLIA


Asylum

UK 2005

REGIA

David McKenzie

INTERPRETI

Natasha Richardson,Ian McKellen,Marton Csokas,Hugh Bonneville

SCENEGGIATURA

Patrick Marber,Chrisanthy Balis,Patrick McGrath(romanzo)



Esce con notevole ritardo Asylum(Follia il titolo italiano),diretto da David MacKenzie che sapientemente tiene conto del fatto che il film è tratto da un complesso romanzo di Patrick McGrath e cerca di fare tesoro dalla maniera di trasporlo scelta da Cronenberg in Spider. Qui la storia però è sensibilmente diversa e quindi,se la messa in scena può sembrare simile,non lo è la struttura del dramma. Siamo sempre dalle parti di matti in manicomio ma qui si tratta di una giovane moglie di un ambizioso psichiatra(Natasha Richardson)che fa fatica ad ambientarsi alle regole del nuovo posto di lavoro del marito,un austero manicomio tenuto da un gruppo di baroni della medicina. Si farà trascinare dalla passione per un paziente dell'ospedale che ha ucciso la moglie per una ossessionante eccesso di gelosia. McKenzie ce la mette veramente tutta e non si può negare sia stato coadiuvato dall'ottimo lavoro della protagonista che dà anima e corpo alla
causa,così come il sempre immenso Ian McKellen. Tuttavia il lavoro di McKenzie è anonimo e geometricamente troppo preciso per l'irregolarità del dramma di follia in cui precipita la protagonista. Va a finire che non si rimane mai completamente soddisfatti e più si avanza nella storia e meno ci si sente presi dalle tiepide fisse della donna. Poi un po' di sesso non scandalizza più nessuno.

di Gianluigi Perrone

lunedì 11 giugno 2007

LA CITTA' PROIBITA


Man cheng jin dai huang jin jia

HK,CINA 2006

REGIA

Zhang Yimou

INTERPRETI

Chow Yun Fat, Gong Li, Chou Jay, Liu Ye

SCENEGGIATURA

Zhang Yimou,Yu Cao



Non si può negare a Zhang Yimou,oltre che di avere talento,di essere un cineasta attento alle proprie scelte produttive. Dopo due film di successo come Heroes e La Foresta dei Pugnali Volanti,era rischioso ripetersi con questa occidentalizzazione commerciale del wu xia che aveva ormai stancato e fatto storcere il naso soprattutto agli estimatori del genere. Quindi dirige un film apparentemente più piccolo ma con mezzi ugualmente elevati se non superiori,realizzando quella che per ogni cittadino cinese mainlander e non è più che una impresa:girare all'interno del Gugong,l'immenso palazzo dell'imperatore nel cuore di Pechino,ettari ed ettari di maestosità che ne fanno il più grande edificio del mondo. Qui,durante la fine della dinastia Tang ed il declino dell'era imperiale,si vivono intrighi familiari degni di una Versailles asiatica,in cui nessuno ama nessuno e tutti si odiano. La figura dell'imperatore,Chow Yun Fat,ne esce malissimo. Un personaggio salito al potere nel sotterfugio che tenta di avvelenare lentamente la moglie che
tacitamente acconsente a questa morte difronte alla disgregaione familiare. I figlio odiano il padre per quell'essere disprezzabile quale è e un segreto si nasconde dietro la dinastia. Chi muoverà guerra contro il potere verrà schiacciato sia militarmente che letteralmente,atroce la scena in cui il figlio minore viene frustato a morte. Il film è molto più vicino al melò classico di quanto abbia mai fatto Zhang e si intrattiene molto sulla folle disperazone dell'imperatrice,una manieristica Gong Li,che appascisce ogni giorno che passa come il prepotente e corrotto potere costituito che rappresenta e stride in mezzo allo sfarzo volutamente esagerato(ma era così)che impera nella Città Proibita. Zhang fa e dice esattamente il contrario di quello a cui ci aveva abituato ultimamente ma non lesina con combattimenti incredibili che però non sono l'unica sostanza del film,per fortuna. C'è da riflettere sull'enorme quantità di guerra che sta ritornando sui grandi schermi,che sia nel 10° secolo in Cina,nel 73 a.C. in Grecia o la Seconda Guerra Mondiale.

di Gianluigi Perrone

sabato 9 giugno 2007

THE DARWIN AWARDS


The Darwin Awards

USA 2006

REGIA

Finn Taylor


INTERPRETI

Joseph Fiennes,Wynona Ryder,Chris Penn,David Arquette

SCENEGGIATURA

Finn Taylor

Avete presente quella storia che racconta Randall a Dante del cugino morto mentre si succhiava l'uccello da solo in Clerks? Quello sarebbe stato un potenziale Darwin Award. Si tratta di una faccendaa nata su internet in cui si prendevano i casi di morte accidentale più curiosi e gli si dava il premio. L'idea(cinicissima)era che questa gente aveva compiuto delle azioni talmente idiote che la loro scomparsa era un toccasana per l'evoluzione dell'umanità. Più che un premio è una diffamazione! L'idea di farci una commedia non è neanche malaccio perchè basta prendere un po' di questi
fatti e organizzarli ad arte per dargli un filo logico. Questo quello che avrebbe dovuto fare Finn Taylor ma che invece non realizza. La storia è quella di un investigatore super intuitivo che da indizi banali riesce a capire cosa è successo in un evento(un po' come il metodo deduttivo di Sherlock Holmes ma inverosimile)e siccome non sopporta la vista del sangue viene licenziato dalla polizia e cerca lavoro in una compagni assicurativa. C'è la collega(Wynona Ryder)che è la sua collega che prima critica il suo essere nerd e poi si innamora si lui e tutte le banalità del caso. Ci sono delle forzature in The Darwin Awards che spesso sono insopportabili. Gli stessi incidenti non sono verosimili,sono talmente delle cazzate enormi che non c'è la minima ombra di un lavoro di sceneggiatura accurato. Notare che nel film si nota che siano i secondo geniti ad essere predisposti ai Darwin Awards ed infatti nel film c'è Joseph Fiennes che è il fratello sfigato di Ralph Fiennes,il fratello con il talento,e la stessa cosa per Chris Penn,che però non aveva avuto la stessa fortuna ma non aveva nulla da invidiare in quanto a bravura al fratello Sean. Questo è stato il suo ultimo film. Per ultimo.Taylor ha cercato pateticamente di dare un senso di metacinema mettendoci un cameraman nel film che filma i nostri protagonisti. Totalemente senza senso.

di Gianluigi Perrone

venerdì 8 giugno 2007

A PROVA DI MORTE


Death Proof

USA 2007

REGIA

Quentin Tarantino

INTERPRETI

Kurt Russell,Rosario Dawson, Sydney Tamiia Poitier, Vanessa Ferlito, Jordan Ladd

SCENEGGIATURA

Quentin Tarantino


Scostiamo ogni dubbio: Grindhouse (“Death proof”) è un film terribilmente imperfetto, ma, anche per questo, esperienza quasi unica e emozionale. Non siamo davanti ad un capolavoro come poteva essere per Le iene, Pulp fiction o il dittico Kill Bill, ma in un divertissement che trasuda amore per i generi, quasi in un esplosione orgasmica incontrollabile che risulta rivoluzione al pari di un “A bout de souffle” di Godard. Certo il cinema tarantiniano è all’apparenza diverso, fottutamente in antitesi con la nouvelle vogue godardiana, ma l’anima è sempre quella snobista che mastica celluloide fin dai manifesti nelle camere dei protagonisti per diventare metacinema intellettuale. Se Godard ne “Il disprezzo” parla di cinema grazie a registi e a produttori, l’attenzione di Tarantino è spostata nella “Manovalanza”, i cascatori, le comparse che silenziosamente fanno il lavoro più grande e sotterraneo per le produzioni. Stundman Mike è l’anima più nera di questi bastardi reietti, ha dato il viso per quei film e ora il suo grido di protagonismo,dopo anni di anonimato, sfocia nel sangue. Ma, genio di un Tarantino, anche in questo caso il personaggio del killer è contorno alla vicenda, il geocentrismo del regista è nel gineprio femminile, come già ai tempi nel discontinuo “Jackie Brown”. Il mondo delle donne è il fulcro che muove e attira le persone come mosche, qualcosa di così ermeticamente poetico da essere quasi una sorta di James Ivory cresciuto tra le gang del bronx perché dietro all’infinità di “cazzo” e “pezzo di merda” si nascondono ritratti non banali di donne in amore. Kurt Russel è splendido, ma nel complesso tutti gli attori fanno la loro bella scena, compresi anche i non attori, la stessa “manovalanza” eretta a protagonista del film con Zoe Bell, controfigura di Uma Thurman in “Kill Bill”. Tarantino dietro gli effetti vintage riesce a fregare tutti, spaccia per exploitation quella che non è, in un contesto liquidato frettolosamente dal Mereghetti come “chiacchere e inseguimenti”. Non ci sono nudi sbattuti in faccia allo spettatore né morti nei primi quindici minuti (per dirla alla Corman), ma dialoghi infiniti scritti da Dio e violenza centellinata col contagocce. Che exploitation avrebbe mai potuto essere questo? In questo mondo dove Sergio Martino sui mischia con Burt Reynolds dove il retrogusto misogino diventa vendetta uterina femminista il divertimento è solo per chi sa ancora apprezzare un film per le sensazioni che realmente da. Gli altri possano pure piangere come femminucce o sputare sangue come maiali. Le ragazze di Faster Pussycat Kill! Kill! risorgono dopo più di trent’anni in queste immagini regalandoci uno dei finali più lunghi e selvaggi degli ultimi anni. Roba quasi da non crederci quando il piede pietoso e virginio di Rosario Dawson perde la purezza nel sangue. Wow!

Nota a margine: La versione visionata è quella più lunga di venti minuti. Sostanzialmente non cambia granché dal girato originale. Erano restati fuori alcuni dialoghi, una scena dove “Butterfly” andava a pomiciare in auto con uno dei ragazzi e una lunga sequenza dove Stundman Mike incontra le altre ragazze in un parcheggio. Questa si può definire la più interessante perché Tarantino come in “Kill Bill volume 1” azzera il colore e mostra la psicopatia sotterranea del personaggio di Russel.
Questi prima odora i piedi di una Rosario Dawson semi addormentata poi frega la sua barba contro di essi svegliandola di soprassalto. Il feticismo tarantiniano per i piedi è celebre dai tempi di Bridgette Fonda e “Jackie Brown”. Se si pensa poi che il film inizia con un paio di piedi inquadrati per lunghi minuti si possono tirare le somme sulle fantasie erotiche del regista. Ma la cosa importante è un’altra: quando mai apriranno in Italia i Big Kahuna Burger? Li vogliamo quei fottuti panini hawaiani.

di Andrea Lanza

giovedì 7 giugno 2007

HARSH TIMES - I GIORNI DELL'ODIO



Harsh Times

USA 2005

REGIA

David Ayer

INTERPRETI

Christian Bale, Freddy Rodriguez, Eva Longoria, Chaka Forman, Tammy Trull, J. K. Simmons, Michael Monks, Samantha Esteban, Tania Verafield

SCENEGGIATURA

David Ayer


Jim Davies (Christian Bale) , veterano della guerra del Golfo, torna nella nativa Los Angeles intento a trovarsi un dignitoso lavoro da federale nell’ L.A.P.D., per poi riuscire a sposare la propria fidanzata messicana (Tammy Trull). Tormentato da continui incubi di morte, retaggio dell’esperienza in Afghanistan, non riesce però ad entrare a far parte delle forze dell’ordine. Nel frattempo, Jim bighellona con il ritrovato amico Mike (Freddy Rodriguez), anche lui perdigiorno ad insaputa della propria fidanzata avvocato, Sylvia (Eva Longoria). Le loro scorribande si barcamenano tra sostanziose bevute, infiniti consumi di marijuana, piccoli furti ai danni di spacciatori da quattro soldi, ecc., sollecitando gradualmente la residua bramosia violenta di Jim, il quale conduce l’amico Mike in una inesorabile, letale spirale di autodistruzione.
HARSH TIMES segna il debutto dietro alla macchina da presa di David Ayer, sceneggiatore di film mainstream come FAST AND FURIOUS, S.W.A.T., ma soprattutto TRAINING DAY di Antoine Fuqua, con cui il suo primo lungometraggio condivide la realistica mise en scéne (ampio ricorso a primi piani sui visi degli attori, largo spazio a dialoghi) e la veridicità del degrado profuso dalla zona sud-est losangelina, con dovuto corollario di malavita e disagio esistenziale. Forse le assonanze si fermano qui, perché se TRAINING DAY era comunque un action movie ad alto budget, sin troppo patinato e moralistico a tratti, HARSH TIMES vanta la genuina credibilità di un cinema indie, scevro di estetismi ed inutili abbellimenti. Da un versante il film (girato in Super 16 mm) privilegia della stessa povertà del suo budget di due milioni di dollari, ma dall’altro paga pegno di una sin troppo dichiarata sgradevolezza, non tanto per la sporadica brutalità di alcune scene, quanto per la difficoltà di poter empatizzare con almeno uno dei due protagonisti. Jim, magistralmente interpretato da Christian Bale, qui anche produttore esecutivo, è sì un disagiato sul quale grava l’ipocrita e cinica acredine di un’intera Nazione che manda a morire i propri giovani in guerra, per poi togliere ai superstiti ogni possibilità salvifica di redenzione, (argomento già esplorato innumerevoli volte da pellicole come Rambo, Nato il 4 Luglio, ecc.), ma è anche un personaggio dalle connotazioni estremamente contraddittorie (l’amore per la propria partner, contrapposto alle scappatelle, l’inusitata passione per lo sballo, la misoginia, accentuata da un’attitudine fastidiosamente cocky, la fragilità di nervi, le incontrollabili esplosioni di violenza), davanti alle quali il fragile Mike non può che reagire come un’ automa. Non che sia un grave difetto di scrittura; di certo però la mancanza di una figura principale idealista e incorruttibile quale il poliziotto interpretato da Ethan Hawke nel film di Foqua, fungerà da deterrente ad un’ampia fetta di pubblico medio, desideroso di abbracciare un accomodante punto di vista “morale” e condivisibile . Anche lo svolgimento del plot è inusuale : la paranoia guerrafondaia di Jim viene introdotta e sviluppata dagli allucinati flashback del prologo, costituiti da frequenti flash visivi e jump cuts, da cui si dedurranno le sue devastate condizioni psicologiche. Per i restanti 2/3, il film è prettamente un resoconto del cazzeggio dei due amici, a metà tra uno Scorsese dei primi tempi ( WHO’S KNOCKING AT MY DOOR e MEAN STREETS su tutti), e un Cassavetes affascinato dalla cultura del ghetto ( il profluvio di slang vomitati nella versione originale – “homeys”, “bros”, “dude” su tutti- mettono a dura prova la sopportabilità di chiunque), prima di arrivare ad un epilogo inevitabilmente tragico. Ayer non riesce inoltre ad evitare alcuni topoi tipici delle pellicole del genere: la caratterizzazione dei messicani non esula dall’usuale enfasi monodimensionale con cui si focalizza lo squallore delle loro esistenze, costituite da sparatorie e traffici di droga; al contrario, il nichilismo da strada, la rabbiosa fatalità e il senso di isolamento di Jim vengono resi con impressionante e, come già visto, quasi urticante autenticità. Impossibile smettere di incensare la performance dell’eclettico Bale: da sola vale il prezzo del biglietto di un’opera prima particolare, imperfetta, ma comunque interessante.

di Francesco Furlotti

domenica 3 giugno 2007

PIRATI DEI CARAIBI - AI CONFINI DEL MONDO


Pirates of the Caribbean: At World's End

USA 2007

REGIA

Gore Verbinski

INTERPRETI

Johnny Depp, Orlando Bloom, Keira Knightley , Geoffrey Rush, Jonathan Pryce, Bill Nighy, Chow Yun-Fat, Tom Hollander, Stellan Skarsgård, Kevin R. McNally, Mackenzie Crook, Lee Arenberg, Martin Klebba, Keith Richards, Naomie Harris

SCENEGGIATURA

Ted Elliott, Terry Rossio


Terzo e conclusivo (si spera) episodio della Walt Dysney dedicato al mondo picaresco creato da Verbinsky. Torna nel bene e nel male tutta la compagnia che abbiamo imparato a conoscere nei precedenti episodi.
L’odioso Lord Beckett portavoce dell’imperialismo più sfrenato -vedi la Compagnia delle Indie Orientali- intenzionato a “disinfestare” il mondo dall’orrida piaga dei pirati, il tenace Will (Orlando Bloom) dall’espressività di una cassapanca, deciso a tradire le persone a lui care pur di salvare il povero padre “dannato”. La bella Elisabeth (Keira Knightley) sempre più magra ed incazzata che mai, altro che le businesswoman di oggi, farà strada la signorina piratessa…(questa la capite dopo aver visto il film).
Il pirata Barbossa sconfitto nel primo film torna alla fine del secondo in versione zombi (anche se non si nota la differenza) riesumato dal mondo delle ombre ad opera della dea dei mari Calypso, pronto a riunire un consiglio di super pirati per opporsi alle mire espansionistiche della succitata Compagnia delle Indie bla bla bla...
Prima di tutto però, bisogna recuperare la star: Capitan Jack Sparrow (Johnny Depp) finito nelle fauci del Kraken alla fine del secondo episodio.
L’avventura inizia in quel di Singapore ritratta come una fogna di Calcutta, dove i nostri allegri e zozzi pirati dovranno recuperare (rubare) una mappa al temibile Capitan Sao Feng (Chow yun Fat, cosa si è ridotto a fare…) pirata con più cicatrici di Marilyn Manson, anche lui invischiato in questo gioco di potere vero fulcro di questo terzo film.
Ovviamente all’appello non manca il soprannaturale vascello Olandese Volante comandatao da Davy Jones, metà uomo e metà polipo, condannato a solcare i mari per l’etrnità un po’ come succede Capitan Findus.
Come avete capito questa volta le carte in tavola sono tante, forse troppe, infatti pare essere proprio questo il punto debole del film. Troppo corto per narrare al meglio ogni singola sottotrama (una mini serie sarebbe stata la cosa più saggia) e troppo lungo per un film di puro intattenimento.
In alcuni momenti la sceneggiatura corre impazzita dando luogo a situazioni quasi ridicole (vedi il risveglio della Dea Calypso) o i “solos”schizzati di Jack Sparrow degni di un film di Gilliam, ma dannatamente avulsi dal contesto e spiazzanti per continuità del film. Tanta carne al fuoco insomma, personaggi che compaiono e scompaiono senza una motivazione e situazioni che definire becere è poco, nonostante ciò il film diverte in virtù di un apparato scenico di grande livello.
Gli effetti speciali della Industrial Light And Magic e della Digital Domain fanno la differenza, soprattutto nel caotico finale dove i vostri occhi verrano spazzati via dalla maestosità degli scontri navali, un turbinare di acque in tempesta, di cannonate, spadate, pistolettate, esplosioni e chi più ne ha ne metta, da lasciare senza fiato anche uno spocchioso esigente come me.
Inutile cercare altro come ho letto in giro, il tema del viaggio inteso come scoperta/crescita, un percorso iniziatico costruttivo e le sue dirette consegenze…
Certo, è un film della Dysney non vi aspettavate mica una gang bang con Keira Knightley vero?
Soddisfacente conclusione di questa saga che mette indiscutibilmente la parola fine lasciando però un finale decisamente aperto. Difficile fermare un brand che incassa così tanto, ho l’impressione che rivedremo molto presto lo stralunato Sparrow e la sua Perla Nera all’orizzonte.

di Marco Figoni

sabato 2 giugno 2007

HOSTEL 2


Hostel 2

USA 2007

REGIA

Eli Roth

INTERPRETI

Lauren German, Roger Bart, Heather Matarazzo, Bijou Phillips, Richard Burgi, Vera Jordanova

SCENEGGIATURA

Eli Roth

Eli Roth colpisce nel segno, il simpatico e giovane regista firma il seguito del suo HOSTEL, film che non brilla certo per timbro registico né per una storia particolarmente evocativa, ma si inserisce nel filone del puro entertainment!
Anche questo secondo capitolo è divertimento puro ma con un sorriso nel volto non si può negare che il giovane regista made in Boston abbia dato il meglio, arricchendo il film di un’ atmosfera unica e ovviando a tutte le mancanze che si notavano nel primo Hostel.
Vari stili cinematografici si accavallano durante la visone, si passa dalle atmosfere dei gialli del cinema bis Italiano a un sentore horror anni’80 Americano con dei tocchi, direi stupefacenti, al cinema che tratta epopee di guerra: è incredibile ma alcune sequenze fanno pensare a momenti catartici di alcuni classici film sulla guerra. Se ne parlava da un secolo dei tre di volti noti del nostro amato cinema che fu, voluti dal produttore mister Quentin Tarantino: si tratta della tutt’ora affascinante Edwige Fenech, che interpreta per pochi secondi un’insegnante Italiana di storia dell’arte, di Luc Merenda (che si pronuncia “Merendà” dato che è Francese, qui i prodotti del Mulino bianco non c’entrano nulla) che interpreta un commissario di polizia Italiano e nientemeno che il re dei cannibalici, il signor Ruggero Deodato, che farà una parte auto ironica, ossia di un Italiano pazzo e cannibale! Sequenza che ricorda il caro Hannibal Lecter oltre che WAXWORK, un famoso horror anni ’80. A dire il vero il film si svolge nei paesi dell’est, per l’Italia si passa solo, quindi niente spaghetti, pizza et similia per Hostel II, ma solo un simpatico “cameo” della culla dell’arte e di un cinema di grande prestigio, ormai ahimè andato perduto, oltre a dei ragazzi italiani che in un treno cantano “ullale ollalla faccela vedè faccela toccà” in pieno stile coatto Italiano.
La messa in scena con sentori di altri generi cinematografici da una sferzata molto particolare al film, una sensazione che unita agli ambienti spesso puliti e asettici (si respirano a tratti atmosfere care a David Cronenberg) crea bruschi passaggi emozionali durante la visione. Un disorientamento che condito ad un’attenzione per i dettagli barocchi, pacchiani e kitsch negli arredamenti e nelle scenografie crea una sorta di atmosfera morbosa, malsana, che si integra alla perfezione con scene che ci mettono di fronte alla follia più pura, bellissima la sequenza in cui una delle vittime del simpatico club viene truccata da una vecchia pazza senza un dente, quasi un’ istantanea di un circo di freaks psicopatici.
Per quanto riguarda l’amico rosso, le viscere e compagnia bella, insomma lo splatter, in HOSTEL II non mancano affatto, anche se è meno incisivo, forse grazie alla varietà delle situazioni cruente. Fermi tutti, gli amanti della carne non rimarranno delusi, ci sono alcune scene, soprattutto verso il finale, che fanno seriamente pensare a come cazzo la censura non abbia imposto i tagli! Resta il fatto che se il primo HOSTEL aveva la sua attrattiva quasi esclusivamente per il gore, questo secondo capitolo è valido anche per gli altri aspetti di cui scrivevo prima. Eli Roth fa una lavoro che mi sento di promuovere a pieni voti all’interno del suo ambito! Inoltre aggiunge un cast femminile che è da manicomio, le fanciulle sono forse esageratamente belle, in certi momenti rischiano di distogliere l’attenzione dagli eventi.
Sequel che meglio di così non poteva essere fatto.
Il signor Eli Roth è promosso a pieni voti! Applausi!

di Davide Casale

venerdì 1 giugno 2007

ZODIAC


Zodiac

USA 2007

REGIA

David Fincher

INTERPRETI

Robert Downey Jr., Anthony Edwards, Jake Gyllenhaal, Pell James, Patrick Scott Lewis, Lee Norris, Bijou Phillips

SCENEGGIATURA

James Vanderbilt

Di film che narrano le gesta del killer dello zodiaco ce ne sono sempre stati: dai capolavori (“Ispettore Callaghan: il caso Scorpio è tuo” di Don Seagal) alle aberrazioni più invereconde della cinematografia mondiale (“Zodia killer” di Ulli Lommel). Ma nessuno di questi film ha mai avuto la stessa potenza scura nel delineare il bene e il male, il confine tra chi viene ucciso realmente e chi lentamente muore nell’interessarsi alla morte. Il ritorno di David Fincher al thriller è segnato da un film all’apparenza studiato a tavolino, ma in realtà maturo e personale. “Zodiac” non è la solita pellicola sui serial killer, è una storia di un’ossessione quasi amorosa tra due detective e un assassino. Quello che a Fincher, a distanza di secoli da “Seven”, interessa non è più il facile effetto a sorpresa o il grandguignol marcato, è la ricerca del sapere, della verità, della conoscenza assoluta. Sia un delitto o Dio, sia un massacratore di coppiette o un emissario dalle fattezze di un Verbal Kane sardonico, il conoscere è l’impulso primario che muove i personaggi ad agire. In questo si può definire “Zodiac” un film intimista perché si sofferma nel privato dei suoi antieroi, lontani dall’etica machista callahiana di “Scorpio” di Don Seagal. Sul piano tecnico il film è strabiliante, soprattutto nel concepire le aggressioni del maniaco in modo assolutamente antispettacolari, ponendo anche qui l’attenzione non sul killer, ma sulle sue vittime. L’impianto è documentaristico, ma sa appassionare, terrorizzare persino in un paio di scene di tensione molto ben studiate. Il film parte dal 1968 anno in cui il killer iniziò la sua carriera e si sposta di capitolo in capitolo non solo a raccontare le sue gesta, ma anche la storia americana che ne fa da cornice. Il cast è ottimo dal sempre troppo sprecato Mark Ruffalo al sottotono Jake Gyllenhaal senza dimenticare grandi “vecchi” come Brian Cox e Robert Downey Jr. Il film è stato comunque un flop tremendo in America, ma se il tempo vorrà sarà adorato negli anni. Come dimenticare l’insuccesso di “Fight club” e ora il suo stato di cult estremo? Certo che dopo schifezze inenarrabili come “Panic room” “Zodiac” arriva come un fulmine a ciel sereno. Da vedere.

di Andrea Lanza