sabato 28 giugno 2008

L'INCREDIBILE HULK


The Incredible Hulk

USA 2008

REGIA

Louis Leterrier

INTERPRETI

Edward Norton, Liv Tyler, Tim Roth, Tim Blake Nelson

SCENEGGIATURA

Zak Penn, Edward Norton


C’era davvero bisogno di un altro film su Hulk? Soprattutto i dubbi nascono spontanei se già il film precedente poteva dirsi riuscito e se non era poi così vecchio da giustificare sia il restyling del personaggio in versione cool sia l’omissione del numero due nel titolo. Ma si sa i puristi del personaggio avevano disprezzato l’originale regia di Ang Lee del film precedente, modo sublime e irripetibile di concepire i comics al cinema, e l’idea azzardata, forse folle, di trasformare il gigante verde di Stan Lee in una scusa per imbastire una tragedia scespiriana di odio tra padre e figlio entrambi peccatori di hubrìs verso Dio. Qui tutto invece diventa più facile, con le strizzate d’occhio al telefilm (l’incipit e gli occhi di Norton verde fosforescente) e molta più sciatteria verso i personaggi. Se la regia di Leterrier (Transporter e Danny the dog) è ottima sul piano spettacolare (l’inseguimento sui tetti è da cardiopalma) facendo quindi il dovere da bravo shooter travestito da regista, la sceneggiatura è qualcosa di disastroso: fa entrare in scena personaggi per poi o dimenticarseli o abbandonarli senza perché (la ragazza brasiliana dell’inizio, ma anche Mister Blue), svilisce situazioni interessanti come il rapporto tra Betty e Banner/Hulk, ma anche (soprattutto) Betty e il padre militare e, ciliegina sublime, ci regala dei dialoghi così dementi da non crederci, soprattutto nel lungo duello tra i due mostri giganti per le vie della città. L’uso della computer grafica è massiccio e non si fanno poi tanti passi avanti rispetto al già plasticoso Hulk di Ang Lee, oggetto di derisione di tanti spettatori. Per accrescere la mancanza di fantasia di molte situazioni poi è bene notare come il cattivo del film, Abominio, sia persino scandalosamente plagiato dal boss finale di “Resident Evil extiction”. A tratti non è più neanche un film, è un videogame demente che va avanti a furia di cazzotti e fondali demoliti. Gli attori fanno quel che possono dalla sempre terribile e imbolsita Liv Tyler a due attori un tempo ottimi come Norton e Roth, ma qui al minimo sindacale. Si salva solo un grandissimo William Hurt perfettamente calato nei panni dello spietato Generale Ross. Comparsa un po’ più sostanziosa del “solito” Stan Lee, autore del fumetto, questa volta vittima di una bevanda mista tra guarana e sangue ai raggi gamma. Come era lecito aspettarsi un ruolo piccolo, ma gustoso anche per l’ex Hulk Lou Ferrigno. Deludente senza dubbio e un passo indietro rispetto “Iron man”.

di Andrea Lanza

sabato 21 giugno 2008

CHIAMATA SENZA RISPOSTA


One Missed Call

USA 2008

REGIA

Eric Valette

INTERPRETI

Edward Burns, Shannyn Sossamon, Ana Claudia Talancón, Ray Wise

SCENEGGIATURA

Andrew Klavan



Oi oi oi ma che film brutto è questo: un (orrendo) remake di una (ottima) pellicola commerciale del regista più pazzo del pianeta, Takashi Miike. Come altro chiamare un uomo capace di girare opere come “Ichii the killer” o “Gozu”, capaci di mischiare il noir poliziesco con deliri visivi da LSD? Sarebbe dovuto uscire bene nelle premesse questo nuovo “The call” anche perché si trattava di rivisitare in chiave occidentale uno dei film meno miikiani esistenti, quindi materia sicuramente più plasmabile rispetto ai classici del regista, quelli più pazzi, scatenati ed anarchici. Ma il film fallisce comunque miseramente e nel modo peggiore. Eric Vallette è la ragione in primis del disastro: regista francese, famoso nel mondo dei fan del cinema horror per un osceno film apprezzato dai più, “Malefique”, qui alla prova del 9 con un budget di tutto rispetto dimostra tutta la sua scarsità di mestierante senza estro. A nulla serve mettere in ambienti claustrofobici manichini dalle fattezze di cadaveri se già tempo prima l’aveva fatto con diverso spirito Jaume Balagero o affidarsi ad una computer grafica così invasiva nella seconda parte da far scemare anche le buone cose viste nel primo tronco di film. Eppure all’inizio c’era sfiorata l’idea si trattasse di un buon rifacimento, capace di portare in Occidente umori di fantasmi orientali come in passato avevano fatto con ottimi risultato Takashi Shimizu con “The grudge 2” e soprattutto Verbinski con il suo “The ring”. La prima parte, contaminata da “Final destination”, con l’originale idea di animare le visioni delle future vittime del cellulare con morti e larve, è anche la migliore. Poi tutto precipita nel deja vu e se si ha come modello Miike non possono non cascare le braccia quando le scene vengono presentate in maniera tanto sciatta. Per fare un esempio vi prego di riguardarvi la sequenza dell’esorcismo in tv come viene concepita nel modello originale e come invece viene “buttata via” nel remake. Non serve piazzare ogni due per tre un crocefisso per ricordarci che siamo in Occidente se poi l’anima del film è incerta tra mille limbi. Gli attori sono uno più cane dell’altro a cominciare dal sosia di Ben Affleck, Edward Burns, fino alla promessa mancata Sossamon, ora abbonata agli horror di bassa lega (“Catacombs” su tutti). Vallette cerca di citare disastrosamente Argento in più momenti culminando con un patetico omaggio nella fase finale ad “Opera” e ad “Inferno”. Naturalmente senza le musiche adatte dei Goblin o di Emerson. Se proprio ci tenete a vedere “The call” guardate l’originale questo lasciatelo in pasto a qualche povero sventurato che non legge “Cangaceiro” e i nostri consigli.

di Andrea Lanza

domenica 1 giugno 2008

INDIANA JONES E IL REGNO DEL TESCHIO DI CRISTALLO


Indiana Jones and the Kingdom of the Crystal Skull

USA 2008

REGIA

Steven Spielberg

INTERPRETI

Harrison Ford, Shia LaBeouf,Cate Blanchett

SCENEGGIATURA

David Koepp,George Lucas,Jeff Nathanson

Finalmente dopo tante false partenze, progetti abortiti con i più disparati attori, il mitico Indiana Jones torna per la gioia di grandi e piccini. Oddio non che tutto funzioni al meglio: Harrison Ford è incartapecorito, la regia di Spielberg incolore, le battute che si voglia ironiche sono in realtà patetiche, il ragazzino che dovrebbe prendere le redini future della serie è buono per i forni di Auswitz. Se comunque si evita di fare gli schizzinosi e capire che non siamo più ad un ristorante ma ad una trattoria, ci si può anche divertire. Del resto Indiana Jones è sempre Indiana Jones come la mamma è sempre la mamma, è un amico del quale non puoi fare a meno. Certo che Spielberg e Lucas potevano in dieci anni pensare anche ad una storia migliore che non cadesse nel patetismo fantascientifico fine a se stesso. Il film vive due anime: una farsesco parodistica e una più genuinamente fanciullesca avventurosa. È questa la parte migliore di questo quarto capitolo, quando i convenevoli vanno a farsi benedire e si entra nel vivo dell’azione. Se la prima parte è anche la più monotona , la seconda a base di conquistadores mummificati e teschi di cristallo, di inseguimenti a cavallo di jeep e sabbie mobili voraci, è sicuramente la più vivace. Tra tutte le scene quella più divertente è il lancio del serpente ad un impaurito Dr. Jones. Si annovera nella variegata lista di villain una crudele Kate Blanchet dalla chioma corvina e il fioretto micidiale. Karen Allen invece risulta inspiegabilmente il mistero più appassionante del film: perché il tempo non l’ha cambiata di una virgola? Si spera che la serie finisca qui perché troppo triste e doloroso sarebbe vedere Harrison Ford scappare da geriatria con il pisello in mano a mo di frusta. Nel complesso è un film che se non nascesse con tante aspettative sarebbe sicuramente divertente. Ma come detto Indiana Jones è Indiana Jones e parlarne davvero male è un delitto. Anche se magari se lo merita.

di Andrea Lanza

giovedì 29 maggio 2008

GOMORRA


Gomorra

Italia 2008

REGIA

Matteo Garrone

INTERPRETI

Toni Servillo, Gianfelice Imparato, Maria Nazionale, Salvatore Cantalupo.

SCENEGGIATURA

Matteo Garrone, Nicola Saviano


Di Gomorra si è parlato tanto grazie al libro di Nicola Saviano. Di Matteo Garrone è stato giustamente osannata la capacità di penetrare la realtà italiana, quella più nera, soprattutto nei suoi ultimi due film. Quello che c'è da dire è che l'Italia aveva bisogno di un film che mettesse in gioco una guerra urbana come quella che imperversa a Napoli. Era l'uovo di Colombo, molti sicuramente ci avevano pensato ma Gomorra ha avuto il pregio di poterlo realizzare, grazie all'impatto mediatico del film. La regia doveva essere questa: vera, cruda, incisiva, presente solo in determinati momenti ma assolutamente ermetica a coloro che la Camorra, Il Sistema, lo fanno dal di dentro. Quindi una storia corale alla Amoresperros ma molto meno cinematografica, assolutamente senza necessità di spettacolarizzare ciò che è già di per se spettacolo: la guerra. E' per questo che senza ombra di dubbio siano gli attori presi dalla strada il fulcro del film. Non perchè Servillo o Cantalupo possano recitare di maniera, nè per gli altri attori del film. Perchè è la verità che parla per sè, che grida per se e trasforma un film apparentemente piccolo in un gigante dalla forza inarrestabile. Gomorra lascia poche chiacchiere da dire, Gomorra è un prodotto definitivo, emulabile ma unico. Ed inarrestabile.

di Gianluigi Perrone

IN BRUGES - LA COSCIENZA DELL'ASSASSINO


In Bruges

USA 2008

REGIA

Martin McDonagh

INTERPRETI

Colin Farrell, Ralph Fiennes, Brendan Gleeson e Clémence Poésy

SCENEGGIATURA

Martin McDonagh


Che cosa è “In Bruges”? Un noir, un post-Tarantino o un post-Coen, o magari un film cartolina per la splendida città belga (che dopo aver visto nel film nessuno potrà negare la volontà di andarci un giorno). Forse, e dico forse, la classificazione è fatta per le menti poco aperte, e il regista McDonagh (premio Oscar per un corto sempre con Gleeson) di certo non è il tipo di persona che pensa di attraccarsi ad un genere solo. Li usa a seconda delle situazioni, quasi a violentare le stesse regole del genere. Prima di tutto c’è Bruges (o come appella il protagonista: questa cazzo di Bruges), luogo fatato scelto dal boss (un indiavolato Ralph Fiennes) per l’esilio/vacanza di due killer dopo un lavoro andato a male. Luogo dove i protagonisti verranno a contatto con i tipi più strani della città aspettando con ansia i tanto attesi ordini del boss. Bruges è un luogo purificatore, ma maledetto, che apre le menti ma azzera la voglio di vivere. Un luogo giusto per mettere in atto una carneficina da tragedia greca. Una città che con le sue “opere” e il suo modo di vivere diventa lo specchio della storia da raccontare. Dall’altra parte poi ci sono le soluzione narrative che non sempre sembrano azzeccate: gli espedienti sono troppi e certi personaggi sembrano funzionali solo in quanto prima o dopo verranno usati per far incastrare qualche momento fondamentale delle storia; problemi di uno script bello nei dialoghi (sia umoristici che seri) ma poco interessato a costruirci sopra una storia che stia in piedi. Niente di così grave perché alla fine i conti, anche se forzati, tornano e in fondo “In Bruges” è un film che vive di situazione che passano da una critica all’intellettualismo fine a se stesso tipico dall’Europa a un bisogno umanitario di confronto con altre tipi di culture (che poi è il punto cardine del tema del viaggio). Insomma McDonagh aggira la storia, per dire quello che vuole e come lo vuole. Assurdo infatti, tanto per fare un esempio, che un film per palati fini come questo non lesini di mostrare dettagli “gore” quasi fosse l’ultimo dei Turtured movie. “In Bruges” è l’apoteosi di come non si dovrebbe costruire un film ma è anche il film che aspettavamo da tanto tempo. Se poi ci regala un trio di interpretazioni di alto livello e almeno due scene da tramandare alla storia del cinema non può che farci piacere.

di Daniele Pellegrini

RESERVATION ROAD


Reservation road

USA 2007

REGIA

Terry George

INTERPRETI

Joaquin Phoenix, Mark Ruffalo, Jennifer Connelly

SCENEGGIATURA

Terry George, John Burnham Schwartz


Ethan Learner (Joaquin Phoenix) è un professore di una piccola comunità americana. Felicemente sposato con Grace (Jennifer Connelly) e con due figli a carico cambia prospettiva di vita quando Dwight (Mark Ruffalo), un avvocato, investe suo figlio uccidendolo sulla Reservation Road per poi scappare impaurito dalle conseguenze. Film drammatico, forse troppo, questo Reservation Road, seconda opera di Terry George dopo il successo mondiale di Hotel Rwanda. La trama richiama immediatamente al cinema di Iñárritu di cui però Reservation Road a poco a cui spartire, tranne un certo gusto nell’ unire i personaggi a forza. Invece il film di George assomiglia particolarmente al cinema di Todd Field specialmente per il modo di farci entrare con occhio delle telecamera nel nucleo familiare: facendoci assaporare con metodo quasi scientifico il dramma di madri, padri e figli. Ma George non è Field e il suo film rimane in superficie. Certo non gli si chiede di avere la stessa potenza narrativa di “In the bedroom” ma provare a tirare fuori qualcosa che esuli dall’elementare connubio di “Tragedia-Dolore” non era una richiesta così grande. La storia non è in fondo credibile nel suo svolgimento e i personaggi più che veri simboli delle debolezze umane sono per lo più delle figurine con la lacrima pronta. Neanche quella sottotrama di clone del “Giustiziere della notte”, che lo poteva rendere speciale, riesce ad completarsi, in quanto il regista non ha coraggio di affondare. Insomma dire che il film è deboluccio pare quasi un complimento per un lacrima movie che non emoziona, non fa pensare ma soprattutto non riesce neanche ad completarsi nell’inspiegabile finale (la spiegazione c’è invece, ma la spartizione di dolore per il sottoscritto non è materiale da analizzare, e in fondo è troppo facile finirla così). C’è però qualcosa di “buono” in questo Reservation road: una critica a tutte le associazione per la difesa dei diritti civili (in questo caso contro i pirati della strada) rei di allontanare dalla realtà familiare le stesse vittime. Non so se è giusto criticarle, ma per lo meno nel film c’è qualcosa che non richiama direttamente ad altre pellicole. Il resto purtroppo è la solita solfa privata di emozioni. Difficile pure parlare del cast; fanno tutti il loro lavoro, ma emergere da tanto piattume era difficile. Evitabile

di Daniele Pellegrini

21


Rise

USA 2008

REGIA

Robert Luketic

INTERPRETI

Jim Sturgess, Kate Bosworth, Laurence Fishburne, Kevin Spacey, Aaron Yoo, Liza Lapira, Jacob Pitts, Josh Gad

SCENEGGIATURA

Allan Loeb e Peter Steinfeld

21 vittoria grande baldoria” è la frase che continua ad echeggiare nella testa di un giovane matematico aspirante medico. La sente nei tavoli da black jack quando esce la combinazione massima, la più aspirata dai giocatori, il 21 che permette di vincere le cifre più vertiginose. A portarlo là è un professore che ha formato una vera e propria squadra di maestri del gioco d’azzardo, ragazzi che hanno usato la matematica per diventare ricchi ai tavoli da gioco. Il ragazzo è un puro, ma come sempre capita i troppi soldi lo allontaneranno dai sogni più aurei come la tanta agognata laurea in medicina ad Harvard. Poi un brutto giorno qualcuno scopre il loro sistema per fregare i casinò e cominciano i guai… “21” è un film semplice, più di confezione che di sostanza, una pellicola come tante che magari appassiona, diverte per la sua durata, ma che poi dimentichi facilmente. A tratti sembra di assistere ad un film uscito fuori dritto dritto dagli anni 80, solo che al posto di un Tom Cruise d’annata abbiamo un anonimo Jim Sturgess, un volto carino quanto si vuole, ma completamente anonimo. Un po’ come la regia di Robert Luketic, al suo attivo di famoso (o quasi) solo “La rivincita delle bionde”, che va avanti a musiche fighette ad alto volume, fotografia da Cosmpolitan e poco altro. Meglio va con le guest star: Kevin Spacey e Laurence Fishburne sono perfetti nei lorio ruoli di villain agli antipodi. La sceneggiatura, pur se citazionista (si parla di “Rain man”), non presenta grandi colpi d’ala e anche le svolte che si vorrebbero inaspettate sono per lo più prevedibili. Kate Bosword in versione bionda (la si conosceva con la chioma scura come novella Lois Lane nell’ultimo Superman) però è da eiaculazione immediata. Una delle cose davvero notevoli della pellicola. Niente di nuovo sotto il sole placido: siete avvertiti.
di Andrea Lanza

LA SETTA DELLE TENEBRE


Rise

USA 2007

REGIA

Sebastian Gutierrez

INTERPRETI

Lucy Liu, Michael Chiklis, Carla Gugino, James D'Arcy, Samaire Armstrong, Paul Cassell

SCENEGGIATURA

Sebastian Gutierrez

Ma che schifo questo film! Brutto, ma così brutto che non si può credere: sconclusionato, stupido, a tratti persino nonsense da quanto è mal concepito. Ok che ha una bella fotografia, delle musiche molto azzeccate , ma il resto? Questo pasticcio senza capo né coda tenta mille strada senza sceglierne una. E’ la sagra dei vorrei, ma non ci riesco: vorrei essere il “Kill Bill” del cinema horror, ma faccio solo ridere; vorrei essere il “Corvo”, ma assomiglio più a “il Giustiziere della notte” con Frassica al posto di Charles Bronson; vorrei essere il film definitivo sui vampiri invece sono una barzelletta giocata sul gioco di parole Dracula Draculo. Le scene top sono tantissime, unite dall’inconsapevole amore per la cazzata: tra tutte il massimo la raggiunge una prostituta che ad un certo punto per scopare non si toglie neppure gli slip. In più la pellicola è pericolosamente e demenzialmente moraleggiante: la novella vampira, in una sorta di deviato codice morale, uccide solo la feccia della società che poi sono per inciso un povero vagabondo con la tosse e uno studente di legge che si fuma uno spinello. Roba da pazzi! Poi i vampiri cattivi si riducono ad un paraplegico che viene ucciso in tre secondi, un cinese incazzoso che si ribella colpi di kung fu e a due riccastri efebici. La cacciatrice di vampiri poi ha un’arma misteriosa che spara dardi senza ricaricare, viene ingaggiata da una setta misteriosa che in quattro e quattr’otto viene presto dimenticata dall’elaboratissima sceneggiatura e, dulcis in fundo, i vampiri non hanno i canini lunghi., ma una specie di collana Breil affilata come la spada di Beatrix Kiddon. Il cast non migliora la situazione: Lucy Liu è bellissima, ma monoespressiva come poche e Michael Chiklis, sulla scena mezz’ora al massimo, in vacanza premio da “The Shield”, si limita a riproporre il suo solito clichè già visto in tv. Il regista Sebastian Gutierrez non è di certo né un grande regista né un ottimo sceneggiatore come dimostrano mediocri lavori quali “Snake on the plane” e “She creature”. Se Dio dispensasse i suoi doni come fa con la mediocrità artistica il povero Gutierrez dovrebbe essere fidanzato con Luciana Litizzetto e non con quel figone di Carla Gugino. Se poi aggiungiamo che il film è prodotto da Sam Raimi lo sconforto è alle stelle.

di Andrea Lanza

mercoledì 28 maggio 2008

IL DIVO


Il Divo

Italia 2008

REGIA

Paolo Sorrentino

INTERPRETI

Toni Servillo,Carlo Buccirosso,Anna Bonaiuto,Flavio Bucci

SCENEGGIATURA

Paolo Sorrentino

Tra i titoli possibili per il film che Sorrentino voleva fare su Andreotti, sempre ispirati ai molti soprannomi del parlamentare italiano, c'era quello di Belzebù. Non sarebbe affatto stato male visto che il personaggio che un truccatissimo ed impassibile Toni Servillo mette in scena ha caratteristiche quasi demoniache, anche se sempre circoscritte nell'ironia grottesca dell'autore partenopeo. A quanto pare i riferimenti visibili nel film che ricondurrebbero a Nosferatu e Pinhead di Hellraiser sono del tutto casuali, e la volontà di Sorrentino era quello di essere ermetico alla realtà nonostante questa mostrasse numerose caratteristiche bizzarre del protagonista, ma è innegabile che le movenze di Servillo/Andreotti hanno dell'inquietante. Nel film si parla soprattutto del settimo governo Andreotti e quindi della caduta di un impero durato decenni della storia d'Italia. Tecnicamente impeccabile, forte del supporto tecnico del direttore della fotografia Luca Bigazzi, la regia spettacolarizza gli eventi, spesso mostrati con una iconografia sorprendente. Andreotti è perseguitato da un velato rimorso per la morte di Moro e per quello che nei confronti della sua immagine significano i processi di Mafia. L'ambivalenza tra un Andreotti freddo e calcolatore ed una sua nascosta umanità diventa il vero argomento del film. In una dimensione onirica Sorrentino immagina che Andreotti confessi che le sue azioni sono tali per il mantenimento di uno status quo, di un equilibrio che attraverso il male mantiene lo Stato sopra ogni cosa. Ecco che l'ambiguità tra il Bene ed il Male diventa la vera essenza del personaggio Andreotti, la sua convinzione che lo muove attraverso la volontà divina, di cui è custode e servo. D'altronde Divo deriva da "divino".

di Gianluigi Perrone

mercoledì 14 maggio 2008

SPEED RACER


Speed Racer

USA 2008

REGIA

Andy Wachowski e Larry Wachowski

INTERPRETI

Emile Hirsch, Susan Sarandon, John Goodman, Christina Ricci, Matthew Fox, Moritz Bleibtreu e Rain

SCENEGGIATURA

Andy Wachowski e Larry Wachowski

Fa strano andare a vedere un film, farselo piacere solo per il gusto ogni tanto di sembrare Pro Pop per poi scoprire che il film è uno dei più grossi flop della storia del cinema. C’è come una maledizione che accomuna il cinefilo al fallimento di nicchia. Perché nel bene o nel male questo Speed racer è l’opera migliore di “fratello” e “sorella” Wachowski, ma stranamente anche il loro più grande errore di valutazione. Eppure era un prodotto ben confezionato per il piacere di donne e bambine. Un ultra caleidoscopio di colori e fregnacce vari devote alla cultura dell’anime. Ma nel ritorno del grandissimo cinema impegnato americano (ampiamente premiato al box office) non c’è più spazio per un blockbuster? Dove sono finiti la miriadi di ragazzini brufolosi in fila con otto chili di popcorn per vedere l’ultima meraviglia dell’industria americana. E mentre da una parte il “popolo” ha la sottigliezza per arrivare a meditare pure delle più alte opere, dall’altra a noi non restano le briciole di quello che una volta potevamo chiamare un veloce restyling della nostra memoria. Allora si potrebbe affermare che Speed racer è un film per cinefili o un film commestibile solo per chi quel periodo di Anime e sigle Tv la vissuto con il cuore e la testa. Si inverte il mondo, ma il giudizio non cambia: il film dei Wachowski è sbalorditivo. Un fruttatone caramelloso di Anime e valori familiari che non vedi l’ora che sia già natale. Per cui lasciamo da parte per una buona volta a casa pacchi d’aspirina e facciamo del male. L’emicrania è una giusta pena per aver assistito per ben due ore ad una esplosione atomica di colori, luci e suoni prima di tornare ad vivere sul serio in quella che molti letterari accomunano con una scala di grigi. Ci piace? Magari no, preferiamo immaginarci al cinema stronzi come nella vita. La speranza di un mondo migliore ma pur sempre falso c’è e l’abbiamo questa settimana al cinema. Impegnatevi a finche non sia soltanto un esperienza per pochi oppure aspettate il prossimo polpettone che vi dirà chissà quante verità sulla vita. Questo Speed racer sarà il film per cui potrà sembrare doveroso comprarsi un lettore Blu-ray (la scusa più stronza). Faccio un doveroso finale: smettetela di far “recitare” Matthew Fox per il bene di tutti.

di Daniele Pellegrini

IRON MAN


Iron Man

USA 2008

REGIA

Jon Favreau

INTERPRETI

Robert Downey Jr., Terrence Howard, Jeff Bridges, Shaun Toub, Gwyneth Paltrow

SCENEGGIATURA

Arthur Marcum, Matthew Hollaway, Mark Fergus, Hawk Ostby


Tony Stark è un inventore geniale e miliardario, capriccioso e vuoto,amministratore di Industrie belliche produttrici e prime fornitrici diarmi per il governo americano. Durante un test in medioriente, per verificare l'efficienza di un'arma sperimentale, viene catturato da un gruppo di estremisti. Ferito al cuore da una scheggia è soccorso e curato da Yinsen, un fisico esperto di cibernetica che gli applica un organo artificiale. Obbligato dai guerriglieri a costruire un'arma invincibile per la loro causa, Tony progetta in segreto un'armatura per fuggire alla prigionia. Rientrato negli Stati Uniti è deciso a cambiare vita, a riparare alle ingiustizie e a sconfiggere le prevaricazioni dei potenti. Perfezionata l'armatura con la sua tecnologia avanzata diventa Iron Man, un supereroe dall’armatura gialla e rossa.
Di cinecomix se ne sono fatti a bizzeffe da sempre (si pensi al Diabolik di Mario Bava anni 60) con risultati ottimi a volte (X men 2 o il Batman di Burton su tutti) o pessimi (Fantastici 4, Ghost Raider, Spawn come perle di scelleratezza incredibile). Iron man non è certo la punta apice del genere, ma ha dalla sua molte cartucce che lo elevano dalla media delle produzioni simili. Prima di tutto una regia abile che riesce a non cadere mai nelle demoniache tentazioni del videoclip, ma anzi sa dare brio, velocità e adrenalina alle scene migliori, quelle d’azione. Merito dell’attore/regista John Favreau, già autore di un delizioso “Elf” con il grandissimo Will Ferrel, e qui alla sua prima prova nel genere testosterino degli action. Poi una grande parte la fa’ il cast
capitanata da un manignifico Robert Downey Jr e da un gigionesco Jeff
Bridges già candidato nell’immaginario come possibile Lex Luthor. Di contorno una spenta, ma graziosa Gwineth Paltrow nei panni della rossa assistente di Tony Stark/Iron man, seguendo quindi la moda del genere di tingere color rame le bionde attrici (Kristen Durst in Spiderman ne è
l’esempio più eclatante). Il film segue la storia del fumetto rimordernizzando alcune parti della vicenda (Afganistan al posto del Vietnam) senza però violentare senza ritegno la materia. L’impianto del film è ironico, ma non mancano scene, come quella iniziale, dove i toni si fanno sempre più cupi e disperati. “Iron man” è una storia di redenzione, di un uomo che i troppi soldi hanno reso un Dio in terra (d’esempio la scena dove cercherà di andare nello spazio volando), ma che la morte, la guerra e la disperazione renderanno semplicemente umano e inerme. Per questo
il miliardario Tony Stark si crea un’armatura, non solo per scappare da una prigionia, ma per riprendere la sua semi divinità, in maniera totalmente diversa da prima questa volta: grazie al metallo lui può ritornare al suo stato di onnipotenza, questa volta anche fisico, ma con un’ottica diversa. Se prima vendere bombe non era né più né meno che una partita veloce ad un videogame, ora quelle stesse armi diventano il motore per distruggere l’idea di morte e guerra. Morte con morte, guerra con guerra, Stark diventa l’utopico sogno di molti americani: va nei paesi terzomondisti e prende letteralmente a calci in culo i dittatori. La presa di coscienza di Stark non è tanto data dalla bellissima battuta finale, ma da quando si accorge della bellezza della segretaria, come se ora aprendo gli occhi potesse vedere quello che lui recepiva solo in
superficie prima. Gli ultimi dieci minuti, a base di cazzotti e frasi ad effetto, sono francamente terribili e, anche se danno l’idea di fumetto filmato, fanno un po’ abbassare la soglia di credibilità del tutto. Ma è inutile lamentarci perché “Iron man” è comunque un cinecomix riuscito:
appassionante, divertente, veloce. Siamo sicuri che i prossimi capitoli saranno, se è possibile, anche meglio.

NB Due cammei eccellenti: Stan Lee, autore del fumetto originale, nei
panni di un simil Hugh Hefner (ideatore della rivista “Playboy”) e
Samuel L. Jackson nei panni di Nick Fury (attenzione a non andarvene dopo i
titoli di coda).

di Andrea Lanza

sabato 3 maggio 2008

L'ULTIMA MISSIONE


MR 73

FRANCIA 2008

REGIA

Olivier Marchal

INTERPRETI

Daniel Auteuil, Olivia Bonamy e Catherine Marchal

SCENEGGIATURA

Olivier Marchal

C’è chi data il ritorno in grande stile del Polar Francese con l’esplosione mondiale del fenomeno Marchal. Prima ci fu Gangsters: intrecciatissimo noir dove già si vedeva l’interesse per una metodica costruzione dei personaggi da parte di Marchal. Poi venne il successo mondiale di 36: l’eleganza che va a braccetto con la narrazione, per un film praticamente perfetto. In tutti i due film si intuiva già una un sfiducia da parte del regista verso la polizia, soprattutto per quando cerne i metodi fallibili del corpo di stato, fattore che esplode in questo Mr 73. Marchal ripropone di nuovo i temi a lui cari e li esalta fino ad arrivare ad un più che esaustivo dramma dentro un thriller molto accademico . C’è il protagonista, investigatore cinico annientato dalla tragedia, che ha voltato le spalle alla vita (e non Dio a lui, per quanto lui vorrà convincersi di questo), per via di un incidente che gli ha strappato la moglie e la figlia; viene affiancato da Justine, che aveva assistito all’uccisione dei propri genitori e che adesso deve affrontare l’uscita di prigione del colpevole. Marchal mette in scena su un Buddy profanatore delle regole, dove il confronto tra i due sarà più cattivo che spettacolare, in linea con la sua visione della polizia. Insomma siamo sull’esistenzialismo con un thriller di sfondo, dove i personaggi più che chiedersi “perché”, si chiedono se ne vale la pena. Però tutto non sembra funzionare. L’eleganza diventa auto-compiacimento del regista e per molti parti il film sembra che giri a vuoto e volendo dirla tutta la tragedia in fondo non colpisce come dovrebbe. Per lo più il film è pervaso da un irrazionalità fumettistica, che lo rende poco credibile e illusorio. Dove il film funziona invece, è quando Marchal si dimentica della sua autorialità ed è costretto per esigenze di genere ad raccontarci l’evolversi del thriller, cosa che fa più rimpiangere che piacere per colpa del baraccone costruitoci sopra. Detto questo il film non è brutto, nè tantomeno un fallimento. Marchal continua a girare bene ed a dimostrare che i calci in faccia noi ce li meritiamo. Leviamoci però il gusto di essere pop-nichilisti e cominciamo ad interessarci veramente alle storie. Inutile dire che Daniel Auteuil comunque è un mostro di bravura: ci saranno si è no 10 attori in giro per il mondo che hanno lo stesso carisma. Menzione per la dolce e brava Olivia Bonamy, che in carriera non era mai stata un attrice da primo piano, ma qui risulta la più convincente, almeno per quello che mostra: l’unico personaggio vero di un film caricato a mille.

di Daniele Pellegrini

mercoledì 16 aprile 2008

UN BACIO ROMANTICO


My Blueberry Nights

Hong Kong / China / France 2007

REGIA

Kar Wai Wong

INTERPRETI

Jude Law, Norah Jones, David Strathairn e Rachel Weisz

SCENEGGIATURA

Kar Wai Wong e Lawrence Block


“Un bacio romantico” (pessimo titolo italiano per “My blueberry night”) è un film di Wong Kar Wai. Lo si desume dai dialoghi, dalla voce over, dai colori violenti quasi da fumetto, dal fatto che le persone si amano quasi senza toccarsi, dai quei rallenti velocizzati che hanno reso famoso il regista di “Angeli perduti”. Ma “Un bacio romantico” è anche un film che vuole esportare il personalissimo stile di Wong Kar Wai in Occidente e non ha il coraggio di osare come forse aveva fatto il deludente “2046”. La storia è sempre la stessa e il senso di deja vu è alto quando in un altro luogo viene riproposta con le dovute varianti la seconda storia di “Hong Kong express”. Solo che non ci sono attori cinesi, ma i ben più fruibili Jude Law e Norah Jones, ma il regista è abile nel farci interessare alla vicenda grazie ai suoi famosi dialoghi interiori e al suo occhio cinematografico mai banale. Così i primi 50 minuti fuggono veloci, ogni fan del regista sarà esaltato nella visione di una storia orchestrata come i capolavori passati con tocchi alla Paul Auster nella sceneggiatura, ma poi succede il disastro. Si perché “Il Bacio romantico” diventa con l’incontro di una Nathalie Portman ossessionata dal gioco un videoclip dilatato, un inno superficiale all’estetica delle belle immagini, quasi un porno di Michael Ninn senza sesso. Ecco che la storia perde interesse e ci dimentichiamo presto di una Maggie Cheung dalle fattezze di Raquel Weltz o di un altro poliziotto innamorato del nulla come tanti protagonisti wongkarwaiani. Il film diventa di un tedio mortale, irritante, snob, un vuoto a rendere, un tentativo anche patetico di celebrare una poetica interessante con una certa stanchezza di idee. Peccato davvero perché il cast (Portman esclusa) è perfetto e si sono lette tante critiche cattive e insensate al film. Noi gli diamo comunque tre proiettili perché è un film che sa regalare emozioni e regala una delle opere ibridi più interessanti del periodo, ma è certo che da Wong Kar Wai ci si aspetta un film non un compitino discreto e noiosetto. Il dubbio però che se fosse stato interpretato da Tony Leng e Faye non avrebbe avuto tante critiche negative, anzi, è altissimo. Razzismo al contrario?

di Andrea Lanza

NON PENSARCI


Non Pensarci

Italia 2008

REGIA

Gianni Zanasi

INTERPRETI

Valerio Mastandrea, Anita Caprioli e Giuseppe Battiston

SCENEGGIATURA

Gianni Zanasi e Michele Pellegrini

Stefano Cardini (Valerio Mastandrea) trasferitosi a Roma con il grande sogni di sfondare nella musica ma finito come chitarrista di un piccolo gruppo punk, ritorna a casa in Emilia dalla sua famiglia. Ad attenderlo ci sono i due genitori, la sorella, che ha abbandonato gli studi e lavora al parco acquatico, e suo fratello titolare della ditta famigliare, ormai fallita, di ciliegie sciroppate. Il titolo Non pensarci si riferisce al monito fatto ai protagonisti ai quali si chiede di “non pensare ai problemi in quanto con il tempo le cose si sistemano da sole”. Teoria utopistica o quantomeno superficiale che affossa un film che, caso più unico che raro in Italia, è scritto bene e recitato ottimamente. Gianni Zanasi non è un fenomeno, neanche possiede guizzi stilistici notevoli, ma è bravo e furbo. Sa benissimo che per raccontare le nevrosi italiani non c’è bisogno di chissà quale thrillerone dell’anima (cit.). La leggerezza è l’unico strumento conoscitivo umano. Appesantire il film è come servire caffè e peperoni a colazione; inutile dire che rimaranno sullo stomaco. Se si usa questo teorema (alla fine è lo stesso di Tutti giù per terra e Velocità massima noti per essere due dei miglior film italiani in questo grigio periodo) difficilmente si sbaglia film. Anche se poi moralmente non è il massimo e la storia non ha mirabolanti sviluppi; il film farà comunque ridere. Milioni di persone con un sorriso stampato sulla faccia inconsci nel sapere che in fondo il significato di Non Pensarci non è molto diverso da Ozpetek o chi per lui. Se poi hanno ragione, se i “tic” italiani esistono sul serio, se c’è veramente una classe in alto in grado di giudicarci non è dato sapere. La fiducia/sfiducia nel popolo non è motivo di dibattito. Meglio ridere, va!

di Daniele Pellegrini

lunedì 7 aprile 2008

OXFORD MURDERS - TEOREMA DI UN DELITTO


Oxford Murders

Spagna/Francia 2008

REGIA

Alex De La Iglesia

INTERPRETI

Elijah Wood, John Hurt, Leonor Waitling, Julie Cox

SCENEGGIATURA

Alex De La Iglesia,Jorge Guerricaechevarria,Guillermo Martínez

Chi non è avvezzo al cinema di De la Iglesia potrebe pensare, guardando Oxford Murders, che il regista è un pazzo megalomane. Chi conosce bene la sua produzione ne ha la certezza. Oxford Murders ha due primati per Alex De La Iglesia, legati fra di loro. Se si esclude Perdita Durango, che più che un film è una esperienza ultraterrena,questo è il primo lavoro a respiro commercialmente internazionale (produzione mista, attori internazionali,location britanniche) ed il primo film decisamente brutto della sua carriera. O almeno brutto se teniamo conto dell'estro grottescho che si respirava nelle sue opere precedenti, anche nelle più tiepide come 800 Balas, dove l'ironia ed il cinismo facevano del morbido regista iberico uno dei più liberi d'Europa. Il film persegue la voglia di classicismo del regista, che negli ultimi film aveva prediletto una struttura retrò ispirandosi al vecchio giallo. Quello che rendeva questi film definitivamente riconducibili all'impronta di De La Iglesia era la loro anima irriverente e delirante. Questo scade nell'ultimo lavoro, inglese fin nell'animo, una sorta di Cluedo classico in cui i personaggi si muovono in maniera intricata per risolvere una questione. Molto probabile che si tratti di una marchetta del regista, per avere anch'egli le porte aperte verso Hollywood. Non che manchino le idee interessanti nel film ma quello di cui si sente la mancanza è proprio la personalità e un orologio del genere spegne troppo facilmente gli entusiasmi.

di Gianluigi Perrone

giovedì 3 aprile 2008

GONE ,BABY,GONE


Gone,Baby,Gone

USA 2008

REGIA

Ben Affleck

INTERPRETI

Casey Affleck,Amy Ryan, Michelle Monhagan, Ed Harris e Morgan Freeman

SCENEGGIATURA

Ben Affleck,Aaron Stockard

E' il film del "chi l'avrebbe mai detto". E allora lo diciamo noi. Nonostante tutte le battute sulle doti di Ben Affleck come attore, bisogna ammettere che il ragazzo ha altre doti notevoli, come produttore (Feast è opera sua) ed anche come regista a quanto pare. La squadra che orchestra in Gone, Baby,Gone ha veramente fatto centro, senza colpo ferire. Questo perchè il suo primo corto, I Killed My Lesbian Wife, Hung Her on a Meat Hook, and Now I Have a Three-Picture Deal at Disney, era una genialata ma immatura, così come gli altri due film che ha diretto e che non vedremo mai. Oggi Ben sa ponderare le scelte e quella di Gone,Baby,Gone è veramente azzeccata. Siamo dalle parti del dramma neo-noir, di quelli che piacerebbero a Clint Eastwood o a Sean Penn,non per nulla lo scrittore è lo stesso di Mystic River. la storia di una ragazzina scomparsa e del giovane detective che la cerca insieme alla forza di polizia. La casa buia di Dennis Lehane, è un romanzo lineare, dove gli elementi sono tutti a suo posto, questa storia infatti non è esente da momenti di deja vu ma se si ha la pazienza di guardare il quadro completo ci si trova davanti ad un'opera morale che può avere del controverso. E' un cammino narrativo apparentemente incerto, quasi a scatti,quello di Gone,Baby,Gone, che alterna momenti di tensione a riflessioni umane. Questo film parla di come ci siano cose che a volte vanno fatte, andando contro l'etica, il pensiero comune. E' un viaggio a ritroso nella morale, che porta ad essere talmente progressisti da poter capire di scegliere la strada meno progressista. Rendersi conto che a volte la soluzione giusta è proprio quella sbagliata. Perchè è un mondo sbagliato. Grande prova di attori, su tutti conferma il proprio talento Casey Affleck ma ci sono anche Amy Ryan, Michelle Monhagan, Ed Harris e Morgan Freeman. Vi consigliamo di scoprire perchè il film non è uscito in Inghilterra solo dopo averlo visto.

di Gianluigi Perrone

giovedì 27 marzo 2008

10000 AC


10000 AC

USA 2008

REGIA

Roland Emmerich

INTERPRETI

Camilla Belle, Cliff Curtis, Tim Barlow, Suri van Sornsen, Marco Khan, Reece Ritchie, Mo Zinal, Omar Sharif, Steven Strait

SCENEGGIATURA

Roland Emmerich

So che alla maggior parte degli spettatori (ma non solo) dire Roland Emmerich è sinonimo di cattiva qualità per i film, ma a chi scrive il regista tedesco non è mai dispiaciuto fin dai tempi della sua prima sordita hollywoodiana con “I nuovi eroi”. Il suo cinema, da visionare soprattutto in sale ultramoderne dotate di un reparto audio avanguardistico, è sì superficiale, fracassone (ad esclusione de “Il patriota”), ma anche tremendamente divertente. Penso alla fantascienza da Peter Colosimo di “Stargate”, al pugno in faccia di Will Smith all’alieno (“benvenuto in america”) in Indipendence Day, al Godzilla giapponese che scaglia la sua furia contro il capitalismo americano, ai lupi di Day after Tomorrow. Quindi nell’accingermi a vedere 10000 Ac sono partito con le più belle speranze, ma così ho assistito ad un disastro ancora più devastante. Su wikipedia il film era presentato così: “Nel 2007 sono previsti altri due suoi film, 10.000 B.C., in fase di pre-produzione, basato su una sceneggiatura di Harald Kloser e Emmerich stesso. Il film narrerà attraverso gli occhi di un cacciatore di mammuth la reale vita che si conduceva 10.000 anni prima della nascita di Cristo. Il film sembra annoverare nel suo cast attori per lo più semi-sconosciuti: Camilla Belle, Marco Khan e Steven Strait”. Se l’intento di Emmerich era il realismo, il film non c’entra il bersaglio, ingozzato a forza da effetti speciali continui che ricordano per assurdo la fredda perfezione dei videogame. Scene come la caccia al bisonte o l’attacco degli struzzi carnivori o ancora il salvataggio della tigre coi denti a sciabola sono per lo più scenari da giocare nella solitudine di una X box 360 o di una Ps3, assolutamente poco coinvolgenti se vissuti da spettatori e senza la possibilità di interagire. La storia poi risulta abbastanza disastrosa con questa odissea di un cacciatore preistorico per salvare la sua bella dalle grinfie di un faraone malvagio. Non coinvolge lo sfondo di un passato troppo superficiale per essere vero, di un popolo di primitivi così simili agli indiani d’America, di un cast da telefilm del Sabato pomeriggio. Non una sola goccia di sangue viene versata in battaglie all’apparenza furiose, non esiste pathos anche quando i personaggi muoiono, semmai il film è portatore di riso involontario quando entrano in scena i due cattivi dalle fattezze di un simil Totò sceicco e di un Alessandro Haber inferocito. Il plot ricorda per assurdo il grandissimo esperimento margheritiano “Il mondo di Yor”, ma manca della fantasia e dell’abilità del grande regista italiano. 10000 Ac spreca anche l’idea folgorante dell’amicizia tra l’eroe e una spietata tigre preistorica rilegando l’animale in un cammeo abbastanza inutile: più divertimento tamarro ci sarebbe stato se il protagonista avesse massacrato i cattivoni a cavallo del suo micione zannuto magari a ritmo di musica heavy metal. Emmerich vorrebbe essere Snyder in 300, ma riesce solo ad essere il mero esecutore di uno dei film più disastrosi del nuovo millennio con l’idea suicida di essere serio quando chiama una feroce tribù nemica i “Cula” o le barche “grandi uccelli”. Meglio sarebbe se il regista tedesco si disintossicasse o la smettesse di arrivare sul set ubriaco perché questo non film manca appunto del suo tocco, è cinema dilettantesco immeritevole di essere aggiunto alla sua filmografia. Da dimenticare presto senza remore.

di Andrea Lanza

lunedì 10 marzo 2008

PROSPETTIVE DI UN DELITTO


Vantage Point

USA 2008

REGIA

Pete Travis

INTERPRETI

Dennis Quaid, Matthew Fox, Forest Whitaker, Sigourney Weaver

SCENEGGIATURA

Barry Levy

Molti tireranno in ballo sicuramente il modello “Rashomon” di Kurusawa per parlare di questo “Prospettive di un delitto”, ma mi sembra che non esista niente di più lontano. Il film giapponese era parabola sulle mille sfaccettature della verità, un racconto che cambiava, a seconda di chi narrava la vicenda, non solo i punti di vista, ma proprio il nocciolo della vicenda. “Rashomon” è l’ispiratore di “L’oltraggio”, un western di Martin Ritt, di “Quante volte quella notte” di Mario Bava, di “Il coraggio della verità” di Zwick e di una marea di episodi di telefilm, cartoni animati e fumetti. Ma “Prospettive di un delitto” è più figlio di “Lola corre” di Tom Tykwer con l’idea di un tempo che torna indietro ogni volta all’inizio e ripresenta la storia, lì cambiandola totalmente qui no, con sostanziali colpi di scena. “Prospettive di un delitto” ruota intorno all’assassinio del presidente USA in Spagna e a 8 diversi punti di vista che hanno assistito alla scena: questo almeno fino a metà film perché nel finale tutto diventa molto più lineare riunendo le prospettive importanti in una sola. La pellicola non è nulla di che, ma è ben girata e regala altissimi momenti spettacolari. Un po’ 24, un po’ Friedkin soprattutto per gli inseguimenti, nulla di originale certo, ma quello che dice lo dice bene. Il film difetta soprattutto nella sceneggiatura che dimentica per strada dei personaggi, riduce a macchiette altri (Sigourney Weaver) e non sa fare appassionare a tutti i micro plot come fa con quello principale. Nel cast giganteggia un ritrovato Dennis Quaid che si mangia a colazione nuove leve come l’imbalsamato e poco espressivo Matthew Fox di Lost. Per il resto il cast non fa molto cercandosi di guadagnare la pagnotta senza i grandi sbalzi attoriali che ci saremmo aspettati da, per esempio, un altrove bravo Forrest Whitaker. La regia di Pete Travis è buona e vanta soprattutto un adrenalinico inseguimento girato in stato di grazia tra le vie di una città spagnola. Poteva essere un ottimo thriller action, ma gli evidenti difetti di trascuratezza narrativa non lo rialzano dall’essere un compitino gradevole, ma risaputo.

di Andrea Lanza

lunedì 3 marzo 2008

JUMPER


Jumper

USA 2008

REGIA

Doug Liman

INTERPRETI

Hayden Christensen, Jamie Bell, Samuel L. Jackson, Rachel Bilson, Diane Lane,Tom Hulce e Michael Rooker

SCENEGGIATURA

David S. Goyer e Jim Uhls


Perché se esiste un fast food non può esistere un fast cinema? Film talmente essenziali e privi di contenuti che una volta usciti dal cinema non lasciano niente. Jumper farebbe sicuramente parte di questa categoria. Il film diretto da Doug Liman (che era stato sempre fracassone, ma almeno un volta sapeva essere anche cool) e sceneggiato da David S. Goyer è lo specchietto di quanto il cinema si stia riducendo a degli esasperati plot che vengono limati per l’esigenze del momento. L’esigenza di Jumper è quella di far divertire nel più breve tempo possibile, il resto è niente: vi è piaciuto? Magari volete anche qualche spiegazione? (non si sa mai di questi tempi) Aspettate il secondo. E’ se si parla di trilogia un motivo c’è: Jumper è praticamente un trailer di quanto potremmo vedere nel secondo film. Sono veramente troppo i buchi di sceneggiatura volontari per un cinema commerciale che naviga a suo piacimento nei canoni stabiliti dallo spettatore medio invaghito dallo divertimento veloce stile Televisivo. Ma non questo è cinema. Un film non può essere trattato come un plot di una serie o un prima di un varietà. C’è dello avvilimento nel sapere che allo spettatore/cavia rimane “l’arduo” compito si assimilare il concettino che esistono questi Jumper capaci di telestrasportarsi ovunque in perenne conflitto con i Paladini, una società segreta che opera con i toni della grande Inquisizione. In effetti il tema principale del film sembra quello di una rilettura fantascientifica della caccia alle streghe con questi Jumper (vivono da disonesti usufruendo delle loro capacità.. per la serie non siamo eroi ma buoni ), che sostituiscono le care e vecchie fattucchiere. Peccato che poi tutto rimanga in superficie in attesa di colmare i buchi in un altro momento (un tizio di nome J.J. ci sguazza). Comunque senza pianti e senza lodi il film si fa assaporare solo per gli ottimi inserti action: o per lo meno è dove il film mostra più carattere e soprattutto dove riesce per lo meno a completarsi. Ma rimane solo quello: se poi a voi va bene… è tutto a posto. Vi gusterete Jumper 2, io però passerei la mano.

di Daniele Pellegrini

domenica 24 febbraio 2008

NON E' UN PAESE PER VECCHI


No Country for Old Men

USA 2008

REGIA

Joel & Ethan Coen

INTERPRETI

Javier Bardem, Josh Brolin, Tommy Lee Jones, Woody Harrelson

SCENEGGIATURA

Joel & Ethan Coen, Cormac McCarthy

Ha creato un'attesa degna delle grandi opere il nuovo Coen e, diciamolo subito, il migliore dopo tanti colpi non propriamente ben assestati. I due fratelli comunque hanno ormai l'esperienza e lo status di sapere che basta guardarsi alle spalle per poter tirare fuori qualcosa di buono. Ecco quindi che sulla basa del romanzo di Cormac McCarthy sfruttano il genere per creare un'opera oscura e pessimista, un noir western che conquista , se non altro per la messa in scena. La storia è cruda e semplice, sembra quasi Voglio La Testa di Garcia, con un disperato fuori luogo che vince la lotteria più rischiosa di questo mondo, ruba alla criminalità, e cerca una via di scampo con alle spalle gente di pasta troppo dura che rivuole il maltolto. Con Peckinpah, I coen condividono anche una visione grigia e disperata, che rimane atterrita difronte all'amoralità dell'esistenza e della specie umana. Ottimi interpreti in personaggi perfettamente distribuiti che realizzano questa amara realtà ogniuno nella propria maniera. Tommy Lee Jones come lo sceriffo anziano, spettatore di eventi atroci che riconosce abominevoli finchè non gli fanno notare che la terra ha girato sempre così ed è lui che ne ha le tasche piene. Josh Brolin, l'"Alfredo Garcia" della situazione, che cerca di sparire con il malloppo senza capire che la gazzella non ruba mai la preda al leone. Il personaggio per cui verrà ricordato questo film però è Chigurh, uno spettrale Javier Bardem, che rappresenta il male oscuro del mondo, uno dei killer più affascinanti del cinema moderno, che uccide freddamente, apparentemente con una morale che non dà dignità ma solo una deviata casualità di salvezza, il concetto di imprevisto che pervade il senso del film. I Coen raccontano una storia univesale in maniera intelligente, violenta ma raffinata, con un gusto southern negli ambienti e nei nomi che dà il piacere delle produzioni più professionali di Hollywood. Un film che non poteva essere sbagliato.

di Gianluigi Perrone

giovedì 21 febbraio 2008

FINE PENA MAI


Fine Pena Mai - Paradiso Perduto

Italia/Francia 2008

REGIA

Davide Barletti - Lorenzo Conte

INTERPRETI

Claudio Santamaria, Valentina Cervi, Danilo De Summa, Giuseppe Ciciriello

SCENEGGIATURA

Massimiliano Di Mino, Pier Paolo Di Mino, Marco Saura

La storia di Antonio Perrone (che non è mio parente) è quella di molti criminali del sud Italia, che affamati di vita e denaro, hanno finito per autodistruggersi. Quando, dopo gli attentati di Falcone e Borsellino, lo stato ha applicato il 41bis per i criminali di Mafia, Perrone, che era arrivato ai vertici della Sacra Corona Unita, si è visto sbattere in isolamento totale a vita. Visto che avevano buttato via la chiave, si è messo a scrivere la sua biografia, Vita D'Interni che è diventata questo film dei documentaristi Davide Barletti e Lorenzo Conte. E' la voce fuoricampo dello stesso Perrone che racconta la sua storia di delinquente. Purtroppo si sente un po' troppo l'esperienza documentaristica, gli eventi del film vengono raccontati freddamente e non hanno un vero e proprio trasporto emotivo. Sono una serie di fatti messi uno dietro l'altro senza che abbiano un peso concreto nelle scene. Il tutto rende chiaramente pesante la narrazione di quello che è un noir e quindi pretende ritmo e azione. Eppure il film è ineccepibile, ha un'ottimo colonna sonora, ben fotografato e girato, ha negli interpreti protagonisti (Valentina Cervi e Claudio Santamaria) le vere forze del film, tanto che la parlata dialettale di Santamaria è molto più credibile di alcuni overacting ingenui degli interpreti veramente pugliesi. Oltretutto il film non osa in violenza e sesso e in un primo momento si può pensare che sia per imposizioni produttive ma quando si vede un frontale di un nudo di Santamaria ci si chiede allora perchè non dare un po' di sale ad una storia che lo richiedeva. Alla fine tutto è troppo anonimo e simile ad tante altre realtà, non c'è una vera trasfigurazione di quello che sono realmente i criminali di quel periodo pugliese e sostanzialmente non si riesce a raccontare una storia. Peccato veramente perchè il film aveva delle potenzialità notevoli. I due registi adesso hanno intenzione di realizzare un documentario sulla vicenda vista dal punto di vista della moglie, personaggio che nel film è notevolmente sacrificato.

di Gianluigi Perrone

mercoledì 20 febbraio 2008

LO SCAFANDRO E LA FARFALLA


Le scaphandre et le papillon

Francia 2007

REGIA

Julian Schnabel

INTERPRETI

Mathieu Amalric, Emmanuelle Seigner, Marie-Josée Croze, Anne Consigny, Patrick Chesnais, Niels Arestrup, Olatz Lopez Garmendia, Jean-Pierre Cassel

SCENEGGIATURA

Jean-Dominique Bauby,Ronald Harwood

Lo Scafandro è la Farfalla è uno di quei titoli che solitamente crea curiosità nel momento in cui esce dall'anonimato o semi-anonimato dell'indipendente arriva ad essere accostato a grossi nomi dello star systen grazie a nomination e premi vinti a destra e a manca. E' naturale che qualcosa di buono deve per forza esserci. In effetti la storia del romanzo autobiografico di Jean Dominique Bauby sarebbe il classico uovo di colombo se non fosse vera. L'uomo, ex caporedattore di una delle più vendute riviste di moda francesi, colpito da un ictus cerca di sconfiggere la depressione scrivendo, o meglio dettando il libro con l'unica maniera in cui riesce a comunicare, ovvero sbattendo l'occhio sinistro. Daniel Day Lewis aveva il piede e Jean Do ha solo il suo occhio. A differenza del film di Julian Schnabel qui si cerca un punto di vista meno drammatico e più sensibilmente umano per la situazione. Naturalmente la situazione del protagonista è estremamente dura ma la forza dell'uomo è riuscire comunque, anche nella disperazione, di prendere con ironia la cosa e non abbandonarsi a se stesso. Jean Do, una persona tendenzialmentre superficiale nè più nè meno di chiunque altro, comincia veramente a capire il senso della vita e da peso alla propria esistenza. Può sembrare banale ed infatti lo è. Il film è incredibilmente ingenuo e banale ma in qualche modo molto puro, sincero, universale. Il fatto di riuscire a strappare delle risate in una situazione tendenzialmente drammatica è sicuramente un punto a favore del film, come lo è il fatto di far riflettere sul valore della vita. Schnabel dirige nell'unica maniera possibile, ovvero in soggetttiva del protagonista ed attraverso la sua immaginazione. Non è, in tutta sincerità, quel capolavoro di cui si parla ma è un film che almeno una volta nella vita va visto per ripulire la propria anima. Non è poco.

di Gianluigi Perrone

mercoledì 13 febbraio 2008

LA GUERRA DI CHARLIE WILSON



Charlie Wilson's War

USA 2007

REGIA

Mike Nichols

INTERPRETI

Tom Hanks, Amy Adams, Julia Roberts, Philip Seymour Hoffman, Emily Blunt e Rachel Nichols

SCENEGGIATURA

Aaron Sorkin

“Siamo stati gloriosi e cambiato il mondo…e poi abbiamo mandato a farsi sfottere il finale". Questa è la frase conclusiva del film che sancisce una beffarda verità. “Noi gli abbiamo venduto le armi e addestrati; loro ci hanno buttato giù le Twin towers; ma come è possibile?” Questa invece è la domanda più ricorrente tra gli americani dal 2001”. Il perché è spiegato in questo ultimo film di Mike Nichols. La storia di Charlie Wilson, deputato Repubblicano del Texas, che negli anni ‘80 è riuscito a stanziare fondi per 1 miliardo di dollari per armare i mujahideen dell’ Afghanistan contro il nemico comune russo. Se a primo acchitto la storia sembra riportare a un certo film politico moderno (Syriana per fare un esempio) la messa in scena (che sembra più una piece teatrale) è quella di una farsa comica con un gusto sarcastico di beffeggiare il potere in qualunque parte del mondo operi. Ideologicamente parlando il film di Nichols ricorda molto lo opere di Joe Dante,tipo la seconda guerra civile americana. Il tema principale è lo stesso; l’inconsapevolezza della politica leggera e frivola di fare la storia. Qualunque piccolo gesto ha delle conseguenze grandissime nel futuro (Il battito della farfalla contemporanea). Ed è qui che il film di Nichols diventa essenziale per capire i giorni nostri. Un monumento politically correct sulla carenza di valori politici e diplomatici della nostra epoca. Il fattore storico però serve al film più da scenografia per mettere in atto battute e contro battute che risultano essere la miglior cosa del film. Gli scontri dialettici tra i vari personaggi sono egregiamente scritti e sorprendentemente recitati con un gusto squisito e ragionato ad hoc. Dialoghi costruiti ad un ritmo velocissimo che disorientano lo spettatore normale e illuminano quello che è in cerca del vero film out della stagione cinematografica (i dialoghi tra Hoffman e Hanks sono magnifici). Ma c’è poco da stupirsi: Nichols è maestro in questo. Quello che invece fa storcere il naso è la grossa quantità di dolore mostrata. Un uso bieco di gambe e braccia mozzate che non giovano allo scopo del film. Sembra che il film tenti più volte di predicare bene e razzolare male. Poche parole da spendere per la seconda parte troppo veloce e didascalica: l’impressione è che avessero fretta di finire il film anche se dura più o meno un ora e mezza. Difficile capire questa mossa. Comunque se proprio uno non riesce a farvi scomodare dalla sedia per andare a vedere questo Charlie Wilson, sappiate che vi potrete consolare con Amy Adams e i suoi capelli che dondolano come la chioma di un cavallo e delle sotto ninfette: galline ma pur sempre visioni. Menzione speciale per il ballo ultra-sexy della Emily Blunt, peccato che Nichols era più interessato a farci sentire quello che dicevano i personaggi che si scorda che della povera Blunt. Certe volte è meglio stare zitti!

di Daniele Pellegrini

sabato 9 febbraio 2008

JOHN RAMBO

Rambo

USA 2008

REGIA

Silvester Stallone

INTERPRETI

Sylvester Stallone, Julie Benz, Paul Schulze, Matthew Marsden

SCENEGGIATURA

Silvester Stallone, Art Monterastelli

Cosa rende Rocky e Rambo dei successi di pubblico così inaspettati? Sicuramente il fatto che sono pensati espressamente per i fan. Che questi film siano fatti con il cuore o con la testa, è ovvio che si sente l'intenzione sincera di rispettare il desiderio dello spettatore. PEr quanto riguarda Rambo, non è un segreto che l'appassionato della serie sia generalmente un guerrafondaio o almeno qualcuno desideroso di eplosioni,morti ammazzati e potenza di fuoco. John Rambo è questo, una sceneggiatura esilissima che racconta la storia dell'ex soldato che vive in Thailandia e traghetta dei medici senza frontiere in Birmania, in mezzo alla guerra. Questi vengono catturati dalla guerriglia e viene mandata una task force per recuperarli. Rambo naturalmente farà la sua parte. L'80% del film è una strage. Colpi in arrivo mai visti, una brutalità che è rarissima per un film commerciale, con quantità di sangue inesauribili. E' sicuramente l'episodio più exploitation della serie, con atti di violenza che ci si aspetterebbe da un torture porn, ma c'è di più. Innanzitutto si decide di parlare di una guerra non sdoganata dai media. Avvengono incredibili atrocità in Birmania ma siccome le nazioni unite non hanno interessi economici a riguardo, rimane fuori dall'interesse dell'opinione pubblica. Mettere luce sulla situazione birmana in maniera così veritiera può servire a smuovere le coscienze. Oltretutto il punto di vista sulla guerra è tutto meno che politically correct. E' un rapporto sincero e per nulla ipocrita sulla situazione. I medici senza frontiere si illudono di poter affrontare la guerra solo con mezzi pacifici ma si scontrano con la guerriglia spietata che si macchia delle azioni più turpi. Agli occhi dello spettatore i soldati, sia Rambo che il soldato coscienzioso o il mercenario, sono una categoria costretta a affrontare l'orrore giorno per giorno,perdendo ogni illusione. Personaggi tagliati con il macete ma che concretizzano il messaggio del film. Per tutti gli altri c'è puro intrattenimento all'idrogeno.

di Gianluigi Perrone

lunedì 4 febbraio 2008

REC


REC

Spagna 2007

REGIA

Jaume Balagueró, Paco Plaza

INTERPRETI

Manuela Velasco, Ferran Terraza, Vicente Gil

SCENEGGIATURA

Jaume Balagueró, Paco Plaza, Luis A. Berdejo



Parlare di REC non è affatto semplice se si vuole farne un’analisi approfondita. Non perché sia pieno di sfaccettature e doppi significati nascosti chissà dove, ma perché oltre alle immagini che ci vengono propinate, collegate ad una trama iper elementare, non vi è altro.
In due righe si può riassumere il tutto: un condominio a Barcellona in cui un epidemia “zombesca” inizia ad infettare gli inquilini. Giornalisti televisivi, abitanti, pompieri e poliziotti vi si trovano bloccati per motivi di quarantena. La telecamere resta sempre accesa in modalità “rec”, appunto.
Seguendo lo stile reality che ha portato ai fasti opere minimali come Blair Witch Project, la Filmax commissiona (ci scommetterei) a Jaume Balagueró e Paco Plaza questo film tentando di battere il ferro caldo(?) di questo particolare stile inaugurato in primis dal nostrano Cannibal Holocaust firmato Ruggero Deodato.
Le spese sono ridotte a causa delle location minimali, la camera è sempre a mano e il sonoro in presa diretta. Per chi soffre il mal di mare il film è da evitare come per chi ha problemi alle coronarie, dato che Rec è un’opera terrificante, vuota fondamentalmente, come lo è per quanto riguarda l’originalità, ma che incolla alla poltroncina dall’inizio alla fine. Essendo un simil reality, noi siamo in diretta secondo il film e vediamo attraverso l’occhio della telecamera in tempo reale quindi senza regolazioni del sonoro che esplode improvvisamente saturando il canale audio. Anche le immagini spesso diventano sfocate, la videocamera cadrà anche al suolo, ma Ángela, la giovane giornalista interpretata da Manuela Velasco, non vuole rinunciare allo scoop che potrebbe renderla famosa e di fronte alla follia degli eventi in cui si trova involucrata non pensa minimamente alla qualità delle riprese, ma unicamente che il più possibile venga registrato. Se qualche omaggio evidente a Blair Wich Project non può sfuggire le sensazioni di deja vu col remake Dawn Of the Dead di Zack Snyder sono fin troppo evidenti, quasi eccessive agli occhi di un attento osservatore.
Rec non è per questo un prodotto da cestinare, anzi, mantiene quello che promette, ossia spaventare e nulla più. Il livello di tensione cresce in un’escalation di struttura simile a quella di un videogioco fino al “livello” finale..

di Davide Casale

venerdì 1 febbraio 2008

30 GIORNI DI BUIO


30 Days of Night

USA 2008

REGIA

David Slade

INTERPRETI

Josh Hartnett, Melissa George, Danny Huston, Ben Foster

SCENEGGIATURA

Steve Niles,Stuart Beattie,Brian Nelson



Tutto in una notte. Una notte lunga 30 giorni. La città di Barrow in Alaska vive questa condizione una volta l'anno ed è l'ideale per un clan di vampiri andare lì a pasteggiare indisturbati. Questo l'assunto della fortunata graphic novel di Steve Nile e Ben Templesmith , munifica di sequels, che la GhostHouse di Sam Raimi ha deciso di consegnare nelle mani di David Slade, sulla fiducia del lavoro fatto su Hard Candy. Innanzitutto, mettetevi l'anima in pace, qui il fumetto di Niles c'entra poco. Niente vampiri "goodfellas", nessun Vincent, nessuna ironia cafona. Niente figure acuminate dalle fattezze di vetro. Quello che rimane dei succhiasangue di Templesmith è la ferocia con cui pretendono il sangue dalle vittime. Niente romanticismi, baci,poppisti,il morso è netto e si porta via bei pezzi di carne insieme al sangue. E' difficile parlare del lavoro di Slade perchè sulla carta c'è molto più di quello che alla fine vediamo in video. Slade ama la regia classica. Le avvisaglie c'erano già in Hard Candy, un costrutto tradizionale, compassato, asciutto, basato su dialoghi ed attori. Qui si è tentato di fare la stessa cosa, nellaria rareffata dell'Alaska, Slade ha tentato l'evidente omaggio a La Notte dei Morti Viventi, mettendo una comunità a confronto con se stessa di fronte ad un pericolo ignoto,terrificante e incomprensibile. Infatti la presenza della minaccia si palesa attivamente (a parte sporadiche apparizioni) solo dopo un'ora di film. Tutto il resto voleva essere lavoro su personaggio, tensione, mestiere da artigiano classico, quasi un film in bianco e nero. Il problema è che il risultato non è stato quello che Slade si aspettava. Perchè non c'è tensione, non c'è lo scontro tra personalità, decisioni, movimento delle situazioni. C'è confusione ed indecisione. Gli attori fanno un ottimo lavoro, Hatnett e Ben Foster su tutti, ma non basta certo ad interessarci alle loro chiacchiere. Oltretutto, a parte sporadici casi, questa tendenza alla ripresa classica di Slade non ha alcuna resa moderna. Semplicemente non ha un bel senso visivo,non vi sono immagini che rimangono impresse e questo perchè Slade ha volutamente girare nella maniera classica che forse è l'unica possibile per lui. Verso la fine, di sangue ne scorre e l'azione comunque non manca (esistono pure sempre dei produttori) ma l'eccesso di sofisticatezza della regia (già,perchè fare oggi un horror classico è sofisticato) cozza con il risultato finale ed è un vero peccato, perchè le aspettative erano molto alte.

di Gianluigi Perrone

martedì 29 gennaio 2008

CLOVERFIELD


Cloverfield

USA 2008

REGIA

Matt Reeves

INTERPRETI

Lizzy Caplan, Jessica Lucas, T.J. Miller, Michael Stahl-David, Mike Vogel

SCENEGGIATURA

Drew Goddard

C'è un limite oltre il quale la furbizia diventa genio. Questo è quanto si può dire di J.J. Abrams che, con una scaltra campagna pubblicitaria atta ad alimentare la curiosità verso Cloverfield (memore delle furbate in rete nate per Lost), crea uno dei casi cinematografici dell'anno. Il bello è che, visto che il trailer del film su Star Trek andrà prima del film nelle sale, non è escluso che l'operazione non fosse nata semplicemente per pompare la pellicola diretta da Abrams. Eppure Cloverfield non doveva essere una delusione ed infatti colpisce propriò lì dove intendeva. Come ormai sembra la scelta avanguardistica del momento, la ripresa è quasi sempre in prima persona, documentaristica, girata con camera a mano come se fosse amatoriale. Sono passati anni da Blair Witch Project e oggi vengono fuori l'ottimo Rec di Plaza/Balaguerò, Diary of the Dead di Romero, in maniera molto meno efficace la serie August Underground ed anche alcune scene di guerra de I Figli degli Uomini di Cuaron ricordano questo tipo di ripresa. Matt Reeves, tra i creatori della serie Felicity, dirige un "microscopico colosso". Perchè quella che sembra una ripresa casuale durante l'armageddon che scoppia nel cuore di Manhattan è in realtà un lavoro chirurgico e precisissimo, una prova di attori estenuante ed un lavoro di falso piano sequenza talmente studiato da essere dannatamente reale. La storia è semplice e banale, come ci si potrebbe aspettare è vista dal punto di vista di un gruppo di amici che durante una festa vivono questo calamità, ovvero un enorme creatura vagamente antropomorfa che distrugge New York, riversando sulla città anche i suoi parassiti che attaccano la gente. Hud è il cameraman che riprende tutto il loro viaggio. Gli sceneggiatori cercano di curare attentamente gli avvenimenti per non creare forzature. Il primo problema di questo tipo di film è che probabilmente nessuno in una situazione di pericolo o caos seguiterebbe a riprendere. Negli atti di Hud c'è tutto il sensazionalisto dell'11 Settembre. Ci viene mostrato come la gente sia abituata a filmare gli eventi(molti in mezzo al delirio fanno foto e piccoli video coi cellulari) anche se qualche forzatura si sente. Così come c'è indubbiamente nelle azioni dei ragazzi che per salvare la ragazza di cui uno di loro è innamorato si cacciano in guai che in una situazione del genere neanche il più incosciente fanatico alla ricerca di eroismo si metterebbe. Eppure questo non cambia di una virgola il risultato del film nel quale ci si immedesima in maniera totale. Veniamo proiettati all'interno della catastrofe, alcune scene sono talmente pazzesche da rischiare il cardiopalma e non certo per un trasporto emotivo narrativo ma puramente visivo. Un film che quasi sicuramente farà una scuola senza sbocchi duraturi ma del quale bisogna ammettere che coinvolge lo spettatore senza eccezioni.

di Gianluigi Perrone