giovedì 29 maggio 2008

GOMORRA


Gomorra

Italia 2008

REGIA

Matteo Garrone

INTERPRETI

Toni Servillo, Gianfelice Imparato, Maria Nazionale, Salvatore Cantalupo.

SCENEGGIATURA

Matteo Garrone, Nicola Saviano


Di Gomorra si è parlato tanto grazie al libro di Nicola Saviano. Di Matteo Garrone è stato giustamente osannata la capacità di penetrare la realtà italiana, quella più nera, soprattutto nei suoi ultimi due film. Quello che c'è da dire è che l'Italia aveva bisogno di un film che mettesse in gioco una guerra urbana come quella che imperversa a Napoli. Era l'uovo di Colombo, molti sicuramente ci avevano pensato ma Gomorra ha avuto il pregio di poterlo realizzare, grazie all'impatto mediatico del film. La regia doveva essere questa: vera, cruda, incisiva, presente solo in determinati momenti ma assolutamente ermetica a coloro che la Camorra, Il Sistema, lo fanno dal di dentro. Quindi una storia corale alla Amoresperros ma molto meno cinematografica, assolutamente senza necessità di spettacolarizzare ciò che è già di per se spettacolo: la guerra. E' per questo che senza ombra di dubbio siano gli attori presi dalla strada il fulcro del film. Non perchè Servillo o Cantalupo possano recitare di maniera, nè per gli altri attori del film. Perchè è la verità che parla per sè, che grida per se e trasforma un film apparentemente piccolo in un gigante dalla forza inarrestabile. Gomorra lascia poche chiacchiere da dire, Gomorra è un prodotto definitivo, emulabile ma unico. Ed inarrestabile.

di Gianluigi Perrone

IN BRUGES - LA COSCIENZA DELL'ASSASSINO


In Bruges

USA 2008

REGIA

Martin McDonagh

INTERPRETI

Colin Farrell, Ralph Fiennes, Brendan Gleeson e Clémence Poésy

SCENEGGIATURA

Martin McDonagh


Che cosa è “In Bruges”? Un noir, un post-Tarantino o un post-Coen, o magari un film cartolina per la splendida città belga (che dopo aver visto nel film nessuno potrà negare la volontà di andarci un giorno). Forse, e dico forse, la classificazione è fatta per le menti poco aperte, e il regista McDonagh (premio Oscar per un corto sempre con Gleeson) di certo non è il tipo di persona che pensa di attraccarsi ad un genere solo. Li usa a seconda delle situazioni, quasi a violentare le stesse regole del genere. Prima di tutto c’è Bruges (o come appella il protagonista: questa cazzo di Bruges), luogo fatato scelto dal boss (un indiavolato Ralph Fiennes) per l’esilio/vacanza di due killer dopo un lavoro andato a male. Luogo dove i protagonisti verranno a contatto con i tipi più strani della città aspettando con ansia i tanto attesi ordini del boss. Bruges è un luogo purificatore, ma maledetto, che apre le menti ma azzera la voglio di vivere. Un luogo giusto per mettere in atto una carneficina da tragedia greca. Una città che con le sue “opere” e il suo modo di vivere diventa lo specchio della storia da raccontare. Dall’altra parte poi ci sono le soluzione narrative che non sempre sembrano azzeccate: gli espedienti sono troppi e certi personaggi sembrano funzionali solo in quanto prima o dopo verranno usati per far incastrare qualche momento fondamentale delle storia; problemi di uno script bello nei dialoghi (sia umoristici che seri) ma poco interessato a costruirci sopra una storia che stia in piedi. Niente di così grave perché alla fine i conti, anche se forzati, tornano e in fondo “In Bruges” è un film che vive di situazione che passano da una critica all’intellettualismo fine a se stesso tipico dall’Europa a un bisogno umanitario di confronto con altre tipi di culture (che poi è il punto cardine del tema del viaggio). Insomma McDonagh aggira la storia, per dire quello che vuole e come lo vuole. Assurdo infatti, tanto per fare un esempio, che un film per palati fini come questo non lesini di mostrare dettagli “gore” quasi fosse l’ultimo dei Turtured movie. “In Bruges” è l’apoteosi di come non si dovrebbe costruire un film ma è anche il film che aspettavamo da tanto tempo. Se poi ci regala un trio di interpretazioni di alto livello e almeno due scene da tramandare alla storia del cinema non può che farci piacere.

di Daniele Pellegrini

RESERVATION ROAD


Reservation road

USA 2007

REGIA

Terry George

INTERPRETI

Joaquin Phoenix, Mark Ruffalo, Jennifer Connelly

SCENEGGIATURA

Terry George, John Burnham Schwartz


Ethan Learner (Joaquin Phoenix) è un professore di una piccola comunità americana. Felicemente sposato con Grace (Jennifer Connelly) e con due figli a carico cambia prospettiva di vita quando Dwight (Mark Ruffalo), un avvocato, investe suo figlio uccidendolo sulla Reservation Road per poi scappare impaurito dalle conseguenze. Film drammatico, forse troppo, questo Reservation Road, seconda opera di Terry George dopo il successo mondiale di Hotel Rwanda. La trama richiama immediatamente al cinema di Iñárritu di cui però Reservation Road a poco a cui spartire, tranne un certo gusto nell’ unire i personaggi a forza. Invece il film di George assomiglia particolarmente al cinema di Todd Field specialmente per il modo di farci entrare con occhio delle telecamera nel nucleo familiare: facendoci assaporare con metodo quasi scientifico il dramma di madri, padri e figli. Ma George non è Field e il suo film rimane in superficie. Certo non gli si chiede di avere la stessa potenza narrativa di “In the bedroom” ma provare a tirare fuori qualcosa che esuli dall’elementare connubio di “Tragedia-Dolore” non era una richiesta così grande. La storia non è in fondo credibile nel suo svolgimento e i personaggi più che veri simboli delle debolezze umane sono per lo più delle figurine con la lacrima pronta. Neanche quella sottotrama di clone del “Giustiziere della notte”, che lo poteva rendere speciale, riesce ad completarsi, in quanto il regista non ha coraggio di affondare. Insomma dire che il film è deboluccio pare quasi un complimento per un lacrima movie che non emoziona, non fa pensare ma soprattutto non riesce neanche ad completarsi nell’inspiegabile finale (la spiegazione c’è invece, ma la spartizione di dolore per il sottoscritto non è materiale da analizzare, e in fondo è troppo facile finirla così). C’è però qualcosa di “buono” in questo Reservation road: una critica a tutte le associazione per la difesa dei diritti civili (in questo caso contro i pirati della strada) rei di allontanare dalla realtà familiare le stesse vittime. Non so se è giusto criticarle, ma per lo meno nel film c’è qualcosa che non richiama direttamente ad altre pellicole. Il resto purtroppo è la solita solfa privata di emozioni. Difficile pure parlare del cast; fanno tutti il loro lavoro, ma emergere da tanto piattume era difficile. Evitabile

di Daniele Pellegrini

21


Rise

USA 2008

REGIA

Robert Luketic

INTERPRETI

Jim Sturgess, Kate Bosworth, Laurence Fishburne, Kevin Spacey, Aaron Yoo, Liza Lapira, Jacob Pitts, Josh Gad

SCENEGGIATURA

Allan Loeb e Peter Steinfeld

21 vittoria grande baldoria” è la frase che continua ad echeggiare nella testa di un giovane matematico aspirante medico. La sente nei tavoli da black jack quando esce la combinazione massima, la più aspirata dai giocatori, il 21 che permette di vincere le cifre più vertiginose. A portarlo là è un professore che ha formato una vera e propria squadra di maestri del gioco d’azzardo, ragazzi che hanno usato la matematica per diventare ricchi ai tavoli da gioco. Il ragazzo è un puro, ma come sempre capita i troppi soldi lo allontaneranno dai sogni più aurei come la tanta agognata laurea in medicina ad Harvard. Poi un brutto giorno qualcuno scopre il loro sistema per fregare i casinò e cominciano i guai… “21” è un film semplice, più di confezione che di sostanza, una pellicola come tante che magari appassiona, diverte per la sua durata, ma che poi dimentichi facilmente. A tratti sembra di assistere ad un film uscito fuori dritto dritto dagli anni 80, solo che al posto di un Tom Cruise d’annata abbiamo un anonimo Jim Sturgess, un volto carino quanto si vuole, ma completamente anonimo. Un po’ come la regia di Robert Luketic, al suo attivo di famoso (o quasi) solo “La rivincita delle bionde”, che va avanti a musiche fighette ad alto volume, fotografia da Cosmpolitan e poco altro. Meglio va con le guest star: Kevin Spacey e Laurence Fishburne sono perfetti nei lorio ruoli di villain agli antipodi. La sceneggiatura, pur se citazionista (si parla di “Rain man”), non presenta grandi colpi d’ala e anche le svolte che si vorrebbero inaspettate sono per lo più prevedibili. Kate Bosword in versione bionda (la si conosceva con la chioma scura come novella Lois Lane nell’ultimo Superman) però è da eiaculazione immediata. Una delle cose davvero notevoli della pellicola. Niente di nuovo sotto il sole placido: siete avvertiti.
di Andrea Lanza

LA SETTA DELLE TENEBRE


Rise

USA 2007

REGIA

Sebastian Gutierrez

INTERPRETI

Lucy Liu, Michael Chiklis, Carla Gugino, James D'Arcy, Samaire Armstrong, Paul Cassell

SCENEGGIATURA

Sebastian Gutierrez

Ma che schifo questo film! Brutto, ma così brutto che non si può credere: sconclusionato, stupido, a tratti persino nonsense da quanto è mal concepito. Ok che ha una bella fotografia, delle musiche molto azzeccate , ma il resto? Questo pasticcio senza capo né coda tenta mille strada senza sceglierne una. E’ la sagra dei vorrei, ma non ci riesco: vorrei essere il “Kill Bill” del cinema horror, ma faccio solo ridere; vorrei essere il “Corvo”, ma assomiglio più a “il Giustiziere della notte” con Frassica al posto di Charles Bronson; vorrei essere il film definitivo sui vampiri invece sono una barzelletta giocata sul gioco di parole Dracula Draculo. Le scene top sono tantissime, unite dall’inconsapevole amore per la cazzata: tra tutte il massimo la raggiunge una prostituta che ad un certo punto per scopare non si toglie neppure gli slip. In più la pellicola è pericolosamente e demenzialmente moraleggiante: la novella vampira, in una sorta di deviato codice morale, uccide solo la feccia della società che poi sono per inciso un povero vagabondo con la tosse e uno studente di legge che si fuma uno spinello. Roba da pazzi! Poi i vampiri cattivi si riducono ad un paraplegico che viene ucciso in tre secondi, un cinese incazzoso che si ribella colpi di kung fu e a due riccastri efebici. La cacciatrice di vampiri poi ha un’arma misteriosa che spara dardi senza ricaricare, viene ingaggiata da una setta misteriosa che in quattro e quattr’otto viene presto dimenticata dall’elaboratissima sceneggiatura e, dulcis in fundo, i vampiri non hanno i canini lunghi., ma una specie di collana Breil affilata come la spada di Beatrix Kiddon. Il cast non migliora la situazione: Lucy Liu è bellissima, ma monoespressiva come poche e Michael Chiklis, sulla scena mezz’ora al massimo, in vacanza premio da “The Shield”, si limita a riproporre il suo solito clichè già visto in tv. Il regista Sebastian Gutierrez non è di certo né un grande regista né un ottimo sceneggiatore come dimostrano mediocri lavori quali “Snake on the plane” e “She creature”. Se Dio dispensasse i suoi doni come fa con la mediocrità artistica il povero Gutierrez dovrebbe essere fidanzato con Luciana Litizzetto e non con quel figone di Carla Gugino. Se poi aggiungiamo che il film è prodotto da Sam Raimi lo sconforto è alle stelle.

di Andrea Lanza

mercoledì 28 maggio 2008

IL DIVO


Il Divo

Italia 2008

REGIA

Paolo Sorrentino

INTERPRETI

Toni Servillo,Carlo Buccirosso,Anna Bonaiuto,Flavio Bucci

SCENEGGIATURA

Paolo Sorrentino

Tra i titoli possibili per il film che Sorrentino voleva fare su Andreotti, sempre ispirati ai molti soprannomi del parlamentare italiano, c'era quello di Belzebù. Non sarebbe affatto stato male visto che il personaggio che un truccatissimo ed impassibile Toni Servillo mette in scena ha caratteristiche quasi demoniache, anche se sempre circoscritte nell'ironia grottesca dell'autore partenopeo. A quanto pare i riferimenti visibili nel film che ricondurrebbero a Nosferatu e Pinhead di Hellraiser sono del tutto casuali, e la volontà di Sorrentino era quello di essere ermetico alla realtà nonostante questa mostrasse numerose caratteristiche bizzarre del protagonista, ma è innegabile che le movenze di Servillo/Andreotti hanno dell'inquietante. Nel film si parla soprattutto del settimo governo Andreotti e quindi della caduta di un impero durato decenni della storia d'Italia. Tecnicamente impeccabile, forte del supporto tecnico del direttore della fotografia Luca Bigazzi, la regia spettacolarizza gli eventi, spesso mostrati con una iconografia sorprendente. Andreotti è perseguitato da un velato rimorso per la morte di Moro e per quello che nei confronti della sua immagine significano i processi di Mafia. L'ambivalenza tra un Andreotti freddo e calcolatore ed una sua nascosta umanità diventa il vero argomento del film. In una dimensione onirica Sorrentino immagina che Andreotti confessi che le sue azioni sono tali per il mantenimento di uno status quo, di un equilibrio che attraverso il male mantiene lo Stato sopra ogni cosa. Ecco che l'ambiguità tra il Bene ed il Male diventa la vera essenza del personaggio Andreotti, la sua convinzione che lo muove attraverso la volontà divina, di cui è custode e servo. D'altronde Divo deriva da "divino".

di Gianluigi Perrone

mercoledì 14 maggio 2008

SPEED RACER


Speed Racer

USA 2008

REGIA

Andy Wachowski e Larry Wachowski

INTERPRETI

Emile Hirsch, Susan Sarandon, John Goodman, Christina Ricci, Matthew Fox, Moritz Bleibtreu e Rain

SCENEGGIATURA

Andy Wachowski e Larry Wachowski

Fa strano andare a vedere un film, farselo piacere solo per il gusto ogni tanto di sembrare Pro Pop per poi scoprire che il film è uno dei più grossi flop della storia del cinema. C’è come una maledizione che accomuna il cinefilo al fallimento di nicchia. Perché nel bene o nel male questo Speed racer è l’opera migliore di “fratello” e “sorella” Wachowski, ma stranamente anche il loro più grande errore di valutazione. Eppure era un prodotto ben confezionato per il piacere di donne e bambine. Un ultra caleidoscopio di colori e fregnacce vari devote alla cultura dell’anime. Ma nel ritorno del grandissimo cinema impegnato americano (ampiamente premiato al box office) non c’è più spazio per un blockbuster? Dove sono finiti la miriadi di ragazzini brufolosi in fila con otto chili di popcorn per vedere l’ultima meraviglia dell’industria americana. E mentre da una parte il “popolo” ha la sottigliezza per arrivare a meditare pure delle più alte opere, dall’altra a noi non restano le briciole di quello che una volta potevamo chiamare un veloce restyling della nostra memoria. Allora si potrebbe affermare che Speed racer è un film per cinefili o un film commestibile solo per chi quel periodo di Anime e sigle Tv la vissuto con il cuore e la testa. Si inverte il mondo, ma il giudizio non cambia: il film dei Wachowski è sbalorditivo. Un fruttatone caramelloso di Anime e valori familiari che non vedi l’ora che sia già natale. Per cui lasciamo da parte per una buona volta a casa pacchi d’aspirina e facciamo del male. L’emicrania è una giusta pena per aver assistito per ben due ore ad una esplosione atomica di colori, luci e suoni prima di tornare ad vivere sul serio in quella che molti letterari accomunano con una scala di grigi. Ci piace? Magari no, preferiamo immaginarci al cinema stronzi come nella vita. La speranza di un mondo migliore ma pur sempre falso c’è e l’abbiamo questa settimana al cinema. Impegnatevi a finche non sia soltanto un esperienza per pochi oppure aspettate il prossimo polpettone che vi dirà chissà quante verità sulla vita. Questo Speed racer sarà il film per cui potrà sembrare doveroso comprarsi un lettore Blu-ray (la scusa più stronza). Faccio un doveroso finale: smettetela di far “recitare” Matthew Fox per il bene di tutti.

di Daniele Pellegrini

IRON MAN


Iron Man

USA 2008

REGIA

Jon Favreau

INTERPRETI

Robert Downey Jr., Terrence Howard, Jeff Bridges, Shaun Toub, Gwyneth Paltrow

SCENEGGIATURA

Arthur Marcum, Matthew Hollaway, Mark Fergus, Hawk Ostby


Tony Stark è un inventore geniale e miliardario, capriccioso e vuoto,amministratore di Industrie belliche produttrici e prime fornitrici diarmi per il governo americano. Durante un test in medioriente, per verificare l'efficienza di un'arma sperimentale, viene catturato da un gruppo di estremisti. Ferito al cuore da una scheggia è soccorso e curato da Yinsen, un fisico esperto di cibernetica che gli applica un organo artificiale. Obbligato dai guerriglieri a costruire un'arma invincibile per la loro causa, Tony progetta in segreto un'armatura per fuggire alla prigionia. Rientrato negli Stati Uniti è deciso a cambiare vita, a riparare alle ingiustizie e a sconfiggere le prevaricazioni dei potenti. Perfezionata l'armatura con la sua tecnologia avanzata diventa Iron Man, un supereroe dall’armatura gialla e rossa.
Di cinecomix se ne sono fatti a bizzeffe da sempre (si pensi al Diabolik di Mario Bava anni 60) con risultati ottimi a volte (X men 2 o il Batman di Burton su tutti) o pessimi (Fantastici 4, Ghost Raider, Spawn come perle di scelleratezza incredibile). Iron man non è certo la punta apice del genere, ma ha dalla sua molte cartucce che lo elevano dalla media delle produzioni simili. Prima di tutto una regia abile che riesce a non cadere mai nelle demoniache tentazioni del videoclip, ma anzi sa dare brio, velocità e adrenalina alle scene migliori, quelle d’azione. Merito dell’attore/regista John Favreau, già autore di un delizioso “Elf” con il grandissimo Will Ferrel, e qui alla sua prima prova nel genere testosterino degli action. Poi una grande parte la fa’ il cast
capitanata da un manignifico Robert Downey Jr e da un gigionesco Jeff
Bridges già candidato nell’immaginario come possibile Lex Luthor. Di contorno una spenta, ma graziosa Gwineth Paltrow nei panni della rossa assistente di Tony Stark/Iron man, seguendo quindi la moda del genere di tingere color rame le bionde attrici (Kristen Durst in Spiderman ne è
l’esempio più eclatante). Il film segue la storia del fumetto rimordernizzando alcune parti della vicenda (Afganistan al posto del Vietnam) senza però violentare senza ritegno la materia. L’impianto del film è ironico, ma non mancano scene, come quella iniziale, dove i toni si fanno sempre più cupi e disperati. “Iron man” è una storia di redenzione, di un uomo che i troppi soldi hanno reso un Dio in terra (d’esempio la scena dove cercherà di andare nello spazio volando), ma che la morte, la guerra e la disperazione renderanno semplicemente umano e inerme. Per questo
il miliardario Tony Stark si crea un’armatura, non solo per scappare da una prigionia, ma per riprendere la sua semi divinità, in maniera totalmente diversa da prima questa volta: grazie al metallo lui può ritornare al suo stato di onnipotenza, questa volta anche fisico, ma con un’ottica diversa. Se prima vendere bombe non era né più né meno che una partita veloce ad un videogame, ora quelle stesse armi diventano il motore per distruggere l’idea di morte e guerra. Morte con morte, guerra con guerra, Stark diventa l’utopico sogno di molti americani: va nei paesi terzomondisti e prende letteralmente a calci in culo i dittatori. La presa di coscienza di Stark non è tanto data dalla bellissima battuta finale, ma da quando si accorge della bellezza della segretaria, come se ora aprendo gli occhi potesse vedere quello che lui recepiva solo in
superficie prima. Gli ultimi dieci minuti, a base di cazzotti e frasi ad effetto, sono francamente terribili e, anche se danno l’idea di fumetto filmato, fanno un po’ abbassare la soglia di credibilità del tutto. Ma è inutile lamentarci perché “Iron man” è comunque un cinecomix riuscito:
appassionante, divertente, veloce. Siamo sicuri che i prossimi capitoli saranno, se è possibile, anche meglio.

NB Due cammei eccellenti: Stan Lee, autore del fumetto originale, nei
panni di un simil Hugh Hefner (ideatore della rivista “Playboy”) e
Samuel L. Jackson nei panni di Nick Fury (attenzione a non andarvene dopo i
titoli di coda).

di Andrea Lanza

sabato 3 maggio 2008

L'ULTIMA MISSIONE


MR 73

FRANCIA 2008

REGIA

Olivier Marchal

INTERPRETI

Daniel Auteuil, Olivia Bonamy e Catherine Marchal

SCENEGGIATURA

Olivier Marchal

C’è chi data il ritorno in grande stile del Polar Francese con l’esplosione mondiale del fenomeno Marchal. Prima ci fu Gangsters: intrecciatissimo noir dove già si vedeva l’interesse per una metodica costruzione dei personaggi da parte di Marchal. Poi venne il successo mondiale di 36: l’eleganza che va a braccetto con la narrazione, per un film praticamente perfetto. In tutti i due film si intuiva già una un sfiducia da parte del regista verso la polizia, soprattutto per quando cerne i metodi fallibili del corpo di stato, fattore che esplode in questo Mr 73. Marchal ripropone di nuovo i temi a lui cari e li esalta fino ad arrivare ad un più che esaustivo dramma dentro un thriller molto accademico . C’è il protagonista, investigatore cinico annientato dalla tragedia, che ha voltato le spalle alla vita (e non Dio a lui, per quanto lui vorrà convincersi di questo), per via di un incidente che gli ha strappato la moglie e la figlia; viene affiancato da Justine, che aveva assistito all’uccisione dei propri genitori e che adesso deve affrontare l’uscita di prigione del colpevole. Marchal mette in scena su un Buddy profanatore delle regole, dove il confronto tra i due sarà più cattivo che spettacolare, in linea con la sua visione della polizia. Insomma siamo sull’esistenzialismo con un thriller di sfondo, dove i personaggi più che chiedersi “perché”, si chiedono se ne vale la pena. Però tutto non sembra funzionare. L’eleganza diventa auto-compiacimento del regista e per molti parti il film sembra che giri a vuoto e volendo dirla tutta la tragedia in fondo non colpisce come dovrebbe. Per lo più il film è pervaso da un irrazionalità fumettistica, che lo rende poco credibile e illusorio. Dove il film funziona invece, è quando Marchal si dimentica della sua autorialità ed è costretto per esigenze di genere ad raccontarci l’evolversi del thriller, cosa che fa più rimpiangere che piacere per colpa del baraccone costruitoci sopra. Detto questo il film non è brutto, nè tantomeno un fallimento. Marchal continua a girare bene ed a dimostrare che i calci in faccia noi ce li meritiamo. Leviamoci però il gusto di essere pop-nichilisti e cominciamo ad interessarci veramente alle storie. Inutile dire che Daniel Auteuil comunque è un mostro di bravura: ci saranno si è no 10 attori in giro per il mondo che hanno lo stesso carisma. Menzione per la dolce e brava Olivia Bonamy, che in carriera non era mai stata un attrice da primo piano, ma qui risulta la più convincente, almeno per quello che mostra: l’unico personaggio vero di un film caricato a mille.

di Daniele Pellegrini